La stagione autunnale della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati si è aperta con la mostra Prampolini Burri. Della Materia. La proposta è di attraversare l’intero ’900 artistico italiano attraverso le opere di due artisti che hanno lavorato sul superamento della pittura aprendo ad una ricerca che sulla tela pone una più libera riflessione e sperimentazione sulla materia.
La mostra rappresenta il terzo capitolo di un trittico espositivo promosso dalla Collezione Danna e Giancarlo Olgiati dedicato a confronti esemplari tra alcuni dei massimi protagonisti del Novecento. Ad essere posti a confronto - dopo Klein-Arman e Balla-Dorazio, sono questa volta Enrico Prampolini (Modena, 1894 – Roma, 1956) e Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995). Due protagonisti di una linea novecentesca di sperimentazione sulle materie nell’arte.
La mostra è stata curata da Gabriella Belli e Bruno Corà, in collaborazione con la Fondazione Burri di Città di Castello, ed è stata allestita da Mario Botta.
Ciò che lega questi due artisti è l’utilizzo di materiali anomali. Sostanze diverse, dalle sabbie e dai sacchi di Alberto Burri, ma anche oggetti, piume, pizzi, stoffe, pezzi di realtà che entrano a pieno diritto, con o senza la pittura, dentro i quadri. Due artisti che in maniera completamente diversa e in momenti storici diversi, hanno approcciato quest’idea di sperimentazione di qualcosa di alternativo alla pittura, qualcosa che potesse intervenire sul quadro per arricchire il lavoro, la visione, la profondità, le luci. Prampolini muore nel 1956, Burri nel 1995 il loro operare percorre tutto un secolo e le loro vite si incrociano, a Roma, nel primo dopoguerra, tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ‘50.

Enrico Prampolini, Béguinage, 1914
Una delle prime opere nelle quali Prampolini usa materiali diversi, è del 1914, si intitola Béguinage e si tratta di un collage di materiali diversi su tavola. Cristiana Coletti, per Voci Dipinte, ne ha parlato con al curatrice dell’esposizione, Gabriella Belli, che descrive questo lavoro come «un esperimento raffinatissimo», sicuramente un atto di genio ma assai diverso dalle sue opere futuriste del periodo. Perché nei quadri coevi, specificatamente futuristi Prampolini non lavora con materia anomala, ma esclusivamente con la pittura, in maniera ortodossa.
Nell’economia generale del suo lavoro, questo ci sembra veramente un divertimento, un atto di genio che non ha immediato riscontro nella sua pittura. Quando realizza “Béguinage”, è il 1914, quindi è un momento molto particolare del suo lavoro approdato al futurismo. Sta dentro il movimento e questo “Beguinage” è completamente diverso e lo vediamo. Questo “trompe l’oeil”, su una tavoletta che è dipinta a finto legno, dei pezzi: una trina, un pezzo di stoffa, una piccola piuma e una pennellata.
Gabriella Belli

Enrico Prampolini, La palestra dei sensi, 1923
Anche se lavoravano entrambi con materiali sperimentali Prampolini e Burri restano due artisti molto diversi. Prampolini nasce alla fine dell’ottocento si porta dentro tutte le novità, la sperimentazione, gli entusiasmi del cambiamento, dialoga con un mondo internazionale di grande disobbedienza all’arte e quindi tutto quello che lui fa è all’insegna di un riconoscimento identitario nell’ambito del mondo della pittura. Per Burri la materia ha invece un altro significato non è mai evocativa, non è mai idealismo è qualcosa di diverso.
Prampolini lo si può constatare non ha mai una dimensione lacerante drammatica invece in Burri l’elemento dominante è il dramma e cioè lui è l’erede in qualche modo di Caravaggio nella nostra pittura quindi Burri anche opera diciamo con un dramma non solo interiore ma anche esteriore nel senso che tiene conto della realtà la materia lui la elabora facendola parlare di questo dramma individuale e anche sociale collettivo più ampio perché è un artista che nasce dopo una catastrofe mondiale porta tutti gli elementi diciamo di questa tragedia con sé e ha la necessità di ripartire da zero.
Gabriella Belli

Alberto Burri, Sacco, 1953
Alberto Burri, considerato uno dei padri dell’informale in Italia, nel dopoguerra si allontana dalla forma tradizionale in pittura e sperimenta la pittura materica ed è notissimo per la sua serie sui sacchi . Il primo sacco è del 1949 si intitola SZ1 perché è un sacco di zucchero, degli aiuti americani all’Europa del piano Marshall. Era un inserto, un collage fatto con il tessuto. Dopo arrivano i sacchi fatti con la juta, con i rammendi, le toppe, le cuciture. La materia è essa stessa colore che aggiunge alla valenza cromatica tradizionale qualche cosa che invece è della materia ed è una materia adoperata, antropologicamente esercitata, vissuta.
Come ha detto a Voci dipinte lo storico dell’arte e co-curatore Bruno Corà, la metafora in Burri finisce, non c’è più intenzione di rappresentare ma piuttosto di entrare in relazione diretta, “spettacolare” con l’occhio del visitatore, che diventa spettatore.
La metafora qui con Burri finisce. Burri non rappresenta più e questo vuol dire che è la fine della metafora non è più rappresentativo. Burri presenta la materia, dunque è già dentro una dimensione di forte spettacolarità di forte impatto con l’occhio del visitatore che vuole in qualche modo determinare in lui una catarsi una forma di partecipazione. Questo urto con la materia è rivolto al visitatore. Lui sa di essere eversivo, rovescia tutto quello che c’era stato prima, anche perché la sua è una ricerca proprio di tipo ontologico. Da dove iniziano le cose? Dove è l’origine e con quali mezzi poter esprimere quest’origine questo grumo originale?
Bruno Corà
A che serve un museo?
Voci dipinte 28.09.2025, 10:35
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