Silva, Kirill, Kroll, Dirk Cross, Alex Cardo e Kartoush. Se in quarant’anni di carriera cinematografica riesci a registrare un’anagrafe simile, significa che sei arrivato. Forse non all’Oscar, ma sei arrivato. Sei arrivato al cuore del people-cinema, nell’Olimpo del B-movie, quello di Dio Corman, San Van Damme e King Waters. Il cinema che parla e recita di pancia, possibilmente con la tartaruga. Il cinema di Daniel Bernhardt, l’Action Man di Ittigen, l’architetto che all’architrave ha preferito il deltoide e al Bauhaus il Kung Fu.
Nato sessant’anni fa nel Canton Berna, probabilmente Bernhardt ha stampato il 1965 da qualche parte sulla schiena, o sotto un piede, come un’action-figure Mattel destinata a rimanere per sempre rosa, tonica e con un sorriso smagliante. Bicipite e mascella, sguardo affusolato e calcio volante, quest’estate l’attore svizzero è stato protagonista delle giornate del Locarno Film Festival grazie a Deathstalker di Steven Kostanski, remake dell’omonimo film del 1983 di James Sbardellati.
Un film incastrato tra Conan e Labyrinth, un delirio di spade, mostri e stregonerie in cui tutto, ma proprio tutto, è credibile perché vero. Nel senso di analogico, reale, in carne (gomma) e ossa. Reali i muscoli di Bernhardt, reali le scenografie che danno corpo al Reame di Abraxeon, reali i mostri Dreaditi scolpiti nel lattice. Vero cinema di mestiere, pura Demenza Artigianale, dove demenziali possono essere Elio e le storie tese, gli Skiantos o Una pallottola spuntata. Balordi che fanno tremendamente sul serio.
Figlio di una ballerina e di un pugile - poteva esserci inizio migliore? - Bernhardt era un giovane architetto appassionato di arti marziali. Alto, bello, statutario e dinocolato, nel 1990 si ritrova sul set di Looking for Kicks, uno spot di Gianni Versace con Jean-Claude Van Damme. Con una fortuna: gli somiglia terribilmente (a Van Damme, non a Versace). È la svolta, il passaggio di consegne. Il protagonista di Senza esclusione di Colpi (Bloodsport, 1988) lascia a quel suo gemello alpino il ruolo da protagonista nel sequel Colpi proibiti 2 (Bloodsport 2, 1996) e nel terzo capitolo, Colpi proibiti 3 (Bloodsport 3, 1996). E poi Future War (1997), True Vengeance (1997) e Perfect Target (1997). In due anni Bernhardt diventa un volto e un pettorale degli action movie, perfetto esempio di “be movie”, “esseri film”: attori-atleti al completo servizio della produzione, della storia, senza alcuna inibizione per l’assurdo. Anzi, nel cinema di Bernhardt, Van Damme e Stahelski l’assurdo è proteina, e una pagina di sceneggiatura il cui unico fine è potersele dare, un petto di pollo alla griglia. Una sorta di metodo Stanislawskij da Cross-Fit, il Calisthenics dell’Actor Studio.

Colpi proibiti 2 - Bloodsport 2, 1995
Daniel Bernhardt non è un attore, è un attore di arti marziali. E in quanto tale meriterebbe l’Oscar. Perché? Prendete il goniometro e misurate quanto alza la gamba. «Il mio talento? Dare calci». Se non è consapevolezza questa. A sessant’anni Bernhardt passa le giornate ad allenarsi con la spada: non per girare il prossimo film, ma per allenarsi con la spada, punto. E lo fa alla 87Eleven (oggi 87North), la casa di produzione che è la 20th Century Fox di chi, sui set, mena. L’angolo di Hong-Kong a Hollywood. Il paradiso di John Wick.
E Bernhardt a John Wick gli ha menato sul serio, dieci anni dopo il primo set condiviso con Keanu Reeves. Avete presente l’agente Johnson che in Matrix Reloaded per quattro minuti si distrugge di pugni con Laurence Fishburne sul tetto di un tir in un highway americana? Ecco, è lui, il ragazzo con le manate d’oro, l’interprete perfetto di gun fu, genere-marziale di sparatorie e Kung Fu inventato da Chad Stahelski, il fight coreographer capace di disegnare scene madri per la settima arte marziale. Lo stunt impeccabile di Van Damme (vedi sopra), l’allievo di Hee-il Cho (per davvero) e di Pat Morita (sul set), il villain di Chuck Norris in The Cutter (2005), la comparsa di Sylvester Stallone in Escape Plan (2013), di J-Lo in Parker (2013) e di Charlize Theron in Atomic Blonde (2017). Il Siro della prima e unica stagione di Mortal Kombat: Conquest (1998) e il Josh protagonista di Tornado, il vento che uccide (2003), 2.6 di voto medio su IMDB. Insomma, se Van Damme è il Fred Astaire del karatè, Bernhardt è il Roberto Bolle del Kung Fu.
Chiamatelo weird, trash o B, ma il cinema di Bernhardt è incredibilmente credibile. È un cinema in cui, se ci entri, sai perfettamente cosa stai per vedere e difficilmente ne resti deluso. Un cinema che va contemplato per quello che vuole e dice di essere, non per quello che potrebbe essere il cinema tout-court. Un cinema che non fa male a nessuno. O quasi. Il suo, quello di Deathstalker, è un universo in cui avere il fisico di Van Damme, i capelli di Lucio Corsi, i costumi di Megan Gale e prendere a spadate Rocksteady e Bebop ha perfettamente senso.
Un universo di cui, tra l’altro, il Locarno Film Festival è sempre stato nicchia e altare, riconoscimento e - ce ne fosse bisogno - legittimazione: dalla Retrospettiva del 1999 dedicata a Roger Corman, produttore del primo Deathstalker e poi tornato a Locarno nel 2016, al Pardo d’onore del 2019 consegnato a John Waters. Una scenografia fantastica in cui Daniel Berhardt può serenamente dirsi «uno dei pupazzi di Steven» (Kostanski, il regista di Deathstalker, ndr) perché - di nuovo - perfettamente consapevole. Di chi sia, cosa faccia e dove si trovi: ad Abraxeon, assediato dai Dreaditi. E provate a dirgli di no.

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