Cinema

Gen V e la riflessione sulla fama

Torna (alla grande) l’universo narrativo di The Boys

  • 09.11.2023, 07:57
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Gen V

Di: Valentina Mira 

Se Sailor Moon negli anni Novanta urlava: «Potere della luna, vieni a me!», la protagonista di Gen V sostituisce la luna con l’organo genitale femminile. E questo era il modo meno volgare di raccontare la scena madre del primo episodio di Gen V, la serie ambientata nell’universo narrativo della fortunata The Boys, che ridisegnava il concetto di super eroe (in negativo e con parecchia ironia). L’idea di rendere le mestruazioni un super potere ha l’ambizione di essere un grande simbolo femminista, che ribalta il tabù: il risultato è in realtà molto evidentemente frutto delle menti dei tre uomini creatori della serie, Craig Rosenberg, Evan Goldberg e Eric Kripke. Risulta discretamente di cattivo gusto.
Ma per fortuna il cattivo gusto ostentato è da sempre una cifra dell’universo di The Boys, per cui insieme alla sospensione dell’incredulità fa parte del patto implicito che si stringe con lo spettatore fin dalla prima puntata: se vuoi sbirciare in queste storie, devi essere consapevole che sono permeate di schifezze piuttosto spassose. Alcune delle quali sono irripetibili, per cui non verranno menzionate. Si dirà solo che chi ha visto The Boys non è più in grado di guardare un polpo con gli stessi occhi.
(Qui sotto la scena di The Boys con Timothy il polpo. Attenzione contiene spoiler (dis)gustosi).

Gen V racconta il liceo per super eroi, The Boys era l’età adulta. Non si confonda però una pletora di protagonisti teen con un pubblico di riferimento della stessa età, anche perché Gen V è un trigger warning fatto serie tv. Particolarmente sconsigliata la visione mentre si mangia. Ma anche in treno, e nonostante gli auricolari: ci sono svariate scene che potrebbero far chiedere alla gente perché stiate vedendo un porno davvero, davvero strano.

Tante le cose notevoli in questa nuova reinterpretazione dei Super. La prima è il parallelismo con la fama, già iniziato con The Boys e qui approfondito. «Essere un eroe non è quello che sembra. Se lo vuoi fare, assicurati che lo stai facendo per te», viene detto nella prima puntata. La serie vuole smontare le illusioni capitalistiche, dalla meritocrazia all’idea stessa di specialità - di essere, appunto, Super. Il fatto che la nostra società sia gerarchica, ed esistano degli altari, è pericoloso anche per chi sopra questi altari viene posizionato. Emma ha un milione di follower, e passa le serate da sola a piangere per i commenti negativi e francamente crudeli che riceve. Che una persona venga fatta simbolo: questa è la definizione stessa di disumano. Un simbolo è comunque un oggetto. Resistere a questa deformazione è possibile? Sembra che Gen V voglia rispondere alla domanda come e più di The Boys.
«Di che odora Golden Boy?» ci si chiede. «Like cookies, uh? Like cookies and hope». Di biscotti e speranza. E invece.

La serie disprezza l’idealizzazione. E propone una bella critica al capitalismo e a qualsiasi tipo di società verticistica, soprattutto se basata sull’immagine veicolata dai social media.
Una delle cose più interessanti e riuscite di Gen V è la modulazione emotiva. Il fatto che sia un blocco di ironia cinica fa sì che, nelle rare scene in cui si decide di inserire poesia, ci si commuova ancora di più. L’effetto è un contrasto che funziona, come una sorpresa, lacrime tra le risate. Così è per Nothing Else Matters cantata da Phoebe Bridgers dopo un avvenimento triste che non verrà spoilerato; così è soprattutto nella scena che parla di violenza di genere, nella sua semplicità veritiera. Perché il vero trigger warning della serie non ha a che fare con sangue e morte e violenza splatter, ma con le parole. È quel “tanto non me lo ricordo” rispetto a una violenza. È quel “your body fuckin’ remember it”, che arriva come una coltellata e fa piangere, perché è la verità.

Tanti, gli argomenti trattati in Gen V.
Ci sono i problemi alimentari, e una metafora mai troppo didascalica sul farsi piccole o, al contrario, decidere di avere il diritto di occupare spazio. C’è anche una citazione all’Alice di Carroll che ingrandisce e rimpicciolisce a comando, e che quando diventa grande smette di chiedere scusa; al contrario, si riprende il suo potere.

C’è la transfobia e il fatto che anche nell’universo in questione corrisponde allo sguardo dell’ordine costituito. C’è Jordan Li che cambia genere a comando, cosa che non è raccomandata né appoggiata dall’alto. Al contrario della vulgata sulla cancel culture, in Gen V si critica proprio che chi viene cancellato è il ragazzo trans, non chi lo discrimina.

C’è il ritorno di Soldatino (Soldier Boy), che diventa per i creatori della serie un modo per concentrare tutta l’ironia più gustosamente cattiva sull’imperialismo nordamericano che incarna. Lui è la mascolinità fragile, è quello che dirà “io scorreggio a stelle e strisce”. Non se ne spoilererà la fine.

La colonna sonora è minimale ma significativa. Come I put a spell on you nella versione di Annie Lennoux, che fa il paio con i poteri manipolatori di Cate (“I put a spell on you / ‘cause you’re mine”). Se la manipolazione possa essere usata anche per fini positivi: questo è un altro degli interrogativi che Gen V affronta. L’arbitrio, libero o meno, resta uno dei temi fondanti della serie e dell’universo narrativo in questione.

Il copione per l’intervista, lo star system che prova a sfruttare a suo vantaggio le caratteristiche più umane dei suoi protagonisti, in un continuo tentativo di disumanizzarli: tutto è critica e tutto è solo apparentemente leggerezza e risata, qui. «Modestia, ah. Alla gente piace la modestia. Ora va e sii la numero uno della modestia nel mondo», viene detto alla protagonista. Ed è tutto qui. Qui, e nel contrasto più o meno spietato a questa cosa. Gen V, come The Boys, è un prodotto capitalistico che però è informato all’anticapitalismo. L’ironia è la sua unica cifra, nonché il suo punto di forza. Come scioglie questi interrogativi? Padroneggia queste contraddizioni o se ne fa sommergere? La risposta è nella serie.

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