C’erano un ragazzetto italoamericano di New York e un vecchietto nippoamericano di Sacramento.
Inizia così la storia di un film che seppe offrire agli eighties a stelle e strisce un po’ di sana e ripulita leggerezza patriottica.
Nel 1984 in America, Ronald Reagan - un attore alla Casa Bianca - festeggiava la rielezione che lo avrebbe proiettato verso la fine (e la vittoria) della Guerra fredda, il Vietnam aveva definitivamente smesso di strascicarsi per il Paese e l’economia iniziava a mettere il naso fuori dalla tana (o fossa) dopo la recessione di inizio decennio. E al cinema, era il 22 giugno, usciva Per vincere domani - The Karate Kid, un film per ragazzi dal titolo buffo, primo atto di quel franchise che in 41 anni avrebbe prodotto altri cinque film, una serie animata, un videogioco e una serie TV da sei stagioni. Fino a Karate Kid: Legends, il nuovo capitolo in sala in queste settimane che ha riportato sul grande schermo Ralph Macchio, l’originale e inimitabile Daniel LaRusso, e Jackie Chan, imminente Pardo alla Carriera di Locarno78, ma soprattutto unico erede possibile dell’indimenticabile maestro Miyagi e già protagonista del penultimo capitolo, Karate Kid - La leggenda continua (2010), con un improbabile Jaden (figlio di Will) Smith nel ruolo del giovane allievo di turno.
La trama di The Karate Kid è patrimonio collettivo e pura semplicità anni Ottanta: un ragazzino innamorato della bella della scuola, Daniel LaRusso, le piglia dal bullo d’istituto, Johnny Lawrence, e passa mesi ad apparecchiare la vendetta con un allenatore, il maestro Miyagi, per tornare dal grosso e rimetterlo in ordine. Insomma, il più classico dei coming of age sportivi: adolescenti che affrontano la vita e crescono grazie alla parabola dello sport. Ma com’è possibile che, in appena otto anni del secolo scorso, quindi ben più lenti di otto anni del nuovo millennio, l’immaginario americano - leggi sogno - passi da Rocky Balboa (1976) a Karate Kid (1984)? Dalla boxe al karate; dal naso storto di un corpo di ghisa alla pelle liscia di un ragazzino col ciuffo; da allenamenti sulla scalinata di Philadelphia avvolti dalla nebbia (e da un freddo maiale), a quelli di un poco più che bimbo che dipinge staccionate; da uova ingollate crude, a sorsi di sakè; da monolocali per nutrie a villette californiane; da allenatori frustrati che pignorano l’armadietto del proprio ragazzo a maestri di vita zen; da pantaloncini a stelle e strisce sudati sul ring, a kimono immacolati fatti danzare sul tatami; da fasce rosse come sangue a fasce bianche come la purezza di spirito; da un diretto alla mossa della gru; da “Adriaaanaaa” a “Non dimenticare il respiro, è molto importante”. A rendere possibile questo cambiamento è John Avildsen, regista Premio Oscar di Rocky e regista di The Karate Kid. Con lui, per non perdere le note giuste, pure Bill Conti, autore di entrambe le colonne sonore. Leggendarie.
In quegli anni, il sogno americano è decisamente cambiato. Il Giappone non è più Hiroshima, ma un partner commerciale; la patria forse è meglio non esportarla in Vietnam, ma riscoprirla e custodirla in casa; e la guerra non si fa più (solo) con i muscoli, ma (anche) con la psiche. Così il protagonista di un film, che è sogno per eccellenza, può essere un ragazzino che migra all’interno del Paese, dal New Jersey alla California, il “cattivo” può non ammazzare qualcuno ed essere allenato da un veterano incattivito dalla vita, e l’allenatore del “buono” può vivere nel corpo anziano e nell’anima saggia di un nippoamericano che ha perso la famiglia, messo da parte il karate e che si guadagna da vivere facendo lavoretti in casa d’altri. L’acquerello di un’eccezionale normalità, gentile e educata, che di eroico ha giusto la pazienza.
Un film didascalico e luminoso cucito sull’amicizia intergenerazionale e scritto sul personaggio interpretato da Pat Morita, portatore sano di aforismi irresistibili che ne avrebbero fatto uno dei grandi Maestri della storia del cinema; in un podio azzardato potrebbe giocarsela con Albus Silente (Harry Potter) e il professor Keating (L’attimo fuggente). The Karate Kid parla a e di una nuova generazione americana che sembra voler svestire i muscoli e indossare la testa, e porta al successo planetario una storia di agonismo psicologico, ascolto, sana competizione e lavoro su sé stessi.
Immaginate qualcosa con meno appeal? Eppure…
Ma cosa succede al cinema, nel 1984? Si mescolano i decenni, imbastendo le trame future.
Perché se da una parte le traiettorie di The Karate Kid cavalcano spedite verso i ‘90(210), dall’altra i sanguinosi anni Settanta continuano a sparare. La New Hollywood ha ridisegnato il cinema, e i movie brats, i cinque compagni d’università che avrebbero ribaltato tutto quanto a colpi di kolossal e icone, sono solo all’inizio: George Lucas e Steven Spielberg (a proposito di franchise…) scrivono e dirigono Indiana Jones e il tempio maledetto; Brian De Palma e Francis Ford Coppola sono in sala pure loro con Omicidio a luci rosse e Cotton Club; Martin Scorsese sta scrivendo Fuori orario. Ma non finisce mica qui. Perché l’84 (che fino a prova contraria è durato 12 mesi come tutti gli altri) è l’anno di Amadeus di Miloš Forman e Dune di David Lynch, di Nightmare di Wes Craven e C’era una volta in America di Sergio Leone, di Birdy - Le ali della libertà di Alan Parker e Stranger Than Paradise di Jim Jarmush. E se volessimo restare nel cinema che riempie le sale al pomeriggio e gli occhi di più generazioni, ok i Terminator e Conan il distruttore, ma l’84 è anche l’anno di Footloose, Ghostbusters, Gremlins, Scuola di Polizia e La storia infinita. Un adolescente che vuole danzare, quattro non-giovani che inscatolano fantasmi, un bravo ragazzo che salva la città da un’invasione di mostriciattoli, uno dei pochissimi esempi di polizia americana che fa ridere e un bambino buttato nelle immondizie dai bulli che salva il mondo leggendo.
Sì, il sogno americano è cambiato. “Dai la cera, togli la cera”.

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Il divano di spade 14.06.2025, 18:02
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