Cinema

I Bava sono il cinema della nostra vita

Oggi il premio alla carriera a Lamberto Bava, mentre si proietta la versione restaurata del capolavoro di suo padre Mario

  • Oggi, 10:30
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Lamberto Bava nel 2018

  • IMAGO - BROKER/Markus Wissmann
Di: Michele R. Serra 

È arrivato uno dei momenti più importanti, per Locarno 78. Infatti è proprio nel giorno centrale del festival, che viene premiata una dinastia che ha fatto la storia del cinema di genere (qualcuno dice “italiano”, ma è riduttivo): stamattina Lamberto Bava al Forum incontra il pubblico e ritira il Pardo Speciale alla carriera, nel pomeriggio al Gran Rex viene proiettata la versione restaurata del meraviglioso Reazione a catena di suo padre Mario, che è stato padre anche, artisticamente parlando, dell’horror gotico, del thriller e di tante altre etichette.
La storia dei Bava aveva però incrociato quella del cinema italiano anche con la generazione ancora precedente, quella del nonno Eugenio, capo del settore effetti speciali del celeberrimo Istituto Luce, fondato nel ventennio fascista per promuovere proprio l’arte cinematografica.

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Lo stesso Mario descriveva così Eugenio in un’intervista del 1979: «Mio padre era un artista, prototipo del bohémien. Era pittore, scultore, fotografo, chimico elettricista, medium, inventore; perse anni a studiare il moto perpetuo. Verso il 1908 conobbe il cinema, si gettò a capofitto nella nuova arte, e divenne operatore (allora non si diceva “direttore della fotografia”). Anni dopo, fra un’inquadratura, un modellino e una manciata di iposolfito, mi mise al mondo. Sono cresciuto avviluppato nella pellicola. A tre anni giocavo con pezzi di cianuro di potassio, che mi piaceva tanto per il suo rosso rubino, e lo alternavo in lunghe file con i grani bianchi dell’iposolfito. A mio padre non passò mai per la testa che potessi avvelenarmi, però io sapevo che era veleno e non dovevo leccarmi le dita quando lo toccavo […] io tenevo un capo della pellicola mentre mio padre con un batuffolo di ovatta imbevuto di cianuro strofinava l’emulsione sul lavandino di cucina, stando attenti che le gocce non finissero nell’insalata. A questa infanzia passata nella bottega di mio padre, nel senso di “bottega” dei pittori del rinascimento, sono dovute le mie origini artigianali. Facevamo di tutto, si risolveva tutto con pochi mezzi, con l’ingegno, e con un grande entusiasmo che si appagava dei risultati ottenuti, e non dei soldi che si sarebbero potuti ottenere. Le radici del mio amore-odio per i trucchi risalgono a quei tempi, a quelle esperienze».

Dunque: Eugenio, Mario, Lamberto. Insieme, un secolo di storia di quello che – appunto, come scrivevo poche righe più sopra – qualcuno ama chiamare cinema “di genere”, che significa, poi, semplicemente cinema. Soprattutto Mario e Lamberto, certo, hanno lavorato sul fantastico, sul thriller, sull’horror. Su quel cinema che, per un periodo non breve, ha tenuto sulle spalle un’intera industria: si diceva che i capolavori di Fellini e Antonioni venissero finanziati con gli incassi di I tre volti della paura, Lisa e il diavolo o Diabolik, tre classici di Mario Bava. La realtà non era molto lontana.

Mario Bava è il centro di questa genealogia, il ponte tra l’artigianato cinematografico del tuttofare Eugenio negli anni Trenta e il fantasy ultra-pop televisivo del figlio Lamberto nei Novanta. Così, meglio cominciare da lui.
Mario Bava che conteneva moltitudini, per riprendere la più abusata citazione whitmaniana dell’ultimo secolo: regista nato nel 1960 (quindi, già ultraquarantenne) con La Maschera del demonio, capolavoro assoluto – non solo del cinema di genere vampiresco – capace di remixare i mostri della Universal degli anni Trenta con l’erotismo e la violenza dei britannici della Hammer Film Productions, dentro un quadro di incredibile precisione, raffinatezza formale, creatività visiva.

Martin Scorsese ha scritto che non riesce a ricordare la trama di nessun film di Bava, perché l’impatto estetico era semplicemente troppo affascinante, e si portava via tutta l’attenzione dello spettatore, come fa il cinema più puro. Tim Burton, quando sul palco del premio David di Donatello ha dovuto citare, su richiesta, qualche autore italiano che lo avesse influenzato, ha detto: Fellini e Mario Bava. Burton e Scorsese non sono del resto gli unici autori affascinati dalle luci, dai suoni e dagli effetti speciali di Mario Bava: lo stesso Reazione a Catena oggi pomeriggio al Gran Rex ha dato il via al genere slasher, ed è perfino responsabile delle sue degenerazioni, come il torture porn di Saw (quando va bene) e Hostel (quando va male).  
Bava Mario, però, come suo padre Eugenio, è stato anche e soprattutto un artigiano tuttofare del cinema italiano, girando un film qui, illuminando una produzione là, e fornendo brillanti (ed economici) effetti speciali per un altro film, spesso senza essere citato nei titoli di coda.

Per questo, Mario Bava ha sempre sostenuto di essere un artigiano del cinema come suo padre, ma la realtà è che era effettivamente quello che da una settantina d’anni a questa parte (cioè, più o meno dalla fondazione dei Cahiers du cinéma) chiamiamo autore. Il cinema di Bava, hanno fatto notare i critici che ne hanno scritto negli ultimi decenni, da Alberto Pezzotta in giù, non è né classico (troppo di genere e troppo difforme), né moderno (troppo anti-intellettuale), né postmoderno (non abbastanza citazionista e metatestuale). È arte pop, nel senso più profondo del termine.

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Brigette Nielsen in Fantaghirò 2 di Lamberto Bava

  • IMAGO - Mary Evans / AF / ReteItalia

E al pop più estremo tenderà dopo di lui il figlio Lamberto, ricordato inevitabilmente, più che per i film, per le sue serie televisive – da Fantaghirò in giù – con cui gli italiani, grazie ai soldi della Silvio Berlusconi Communications, provarono ad anticipare la prestige television: il risultato non è stato esattamente l’HBO. Tuttavia, di Lamberto rimangono alcune buone idee, come lo spunto da cui parte il suo Demoni, un horror – qui sì, che arriva il postmoderno – ambientato in un cinema dove si proietta un film dell’orrore dai malefici poteri. Chissà se Hideo Nakata l’aveva visto, mentre si apprestava a girare The Ring, un decennio più tardi.
In ogni caso, personalmente e credo come tutti i figli degli anni Novanta, sul mio immaginario hanno avuto impatto ben maggiore i momenti più kitsch di cose come Sorellina e il principe del sogno, film televisivo in cui convivevano effetti speciali degni di un body horror di David Cronenberg, Valeria Marini nei panni di una fata buona (ok, è lo spirito di una fonte magica, a voler essere precisi), e un mio compagno delle scuole medie che interpretava Raz Degan da giovane (è così). Quest’ultimo particolare, giusto per dire che i Bava hanno fatto parte del cinema della mia vita, come – direttamente o indirettamente – di quello di tutti. Per un secolo almeno.

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