La società della neve è un film diretto da Juan Antonio Bayona, candidato agli Oscar 2024 e tratto da un libro omonimo di Pablo Vierci.
Vierci documentava nel suo scritto le testimonianze dei 16 sopravvissuti al disastro aereo delle Ande, vicenda del 1972 che vide un volo dell’aeronautica militare uruguaiana noleggiato per trasportare una squadra di rugby in Cile schiantarsi contro un ghiacciaio. Di 45 a bordo, 29 sopravvissero all’incidente. I soccorsi tuttavia non arrivarono, e dei 29 ne rimasero, infine, solo 16.
Sono quasi due ore e mezza in grado di smuovere più angoscia della maggior parte dei film dell’orrore. Suonerà come un cliché, ma è il caso di dire che certe volte la realtà è peggiore di qualsiasi fantasia.
L’argomento principale de La società della neve è la sopravvivenza. E l’immagine che viene in mente è quella del dipinto di Friedrich, Il naufragio della speranza, subito dopo La zattera della Medusa di Géricault. Se del primo ci sono i temi - e il ghiaccio, la natura che sa anche assassinare - del secondo riecheggia la storia. Géricault si ispirò per il suo dipinto alla vicenda della Méduse, fregata francese naufragata nel 1816 davanti alle coste dell’attuale Mauritania. Nell’opera non c’è il ghiaccio, ci sono solo corpi ammassati, e la speranza (la stessa che non fa una bella fine in Friedrich) che non trova spazio e muta in disperazione.
Il riferimento alla Zattera della Medusa è anche e soprattutto per via di un accadimento che la storia delle Ande e questa hanno in comune; per dirla con Jonathan Miles: «La zattera condusse i sopravvissuti alle frontiere dell’esperienza umana. Impazziti, assetati e affamati, scannarono gli ammutinati, mangiarono i loro compagni morti e uccisero i più deboli».
La zattera della Medusa di Théodore Géricault
Nel caso delle Ande, l’assassinio non ci fu ma il cannibalismo sì.
Il discorso che queste vicende affrontano è tra i più complessi. Anche il diritto si è sempre interrogato a riguardo, e ha infine stabilito il concetto di “stato di necessità”: nel momento in cui non c’è altro modo di sopravvivere, è ammesso perfino mangiare i propri simili. In termini di Giurisprudenza si parla di diritto naturale che s’impone su quello positivo, di diritti essenziali come quello alla vita che, in circostanze eccezionali e di straordinaria gravità, non possono non essere tutelati anche a discapito della morale comune e di tutto il resto dell’impianto legislativo.
C’è, oltre a tutto questo, anche il tema del libero arbitrio. Nel film la vicenda è affrontata con grande realismo ma anche con delicatezza, perché nessuno uccide nessuno, ma si assiste a un dibattito sofferto e altamente etico sulla scelta di mangiare o meno i corpi dei tuoi simili, dei tuoi compagni.
«Io non ho il diritto di fare tutto quello che posso per sopravvivere? Chi me lo toglie questo diritto?», sbotta a un certo punto uno dei protagonisti. È proprio questo il concetto dietro allo stato di necessità. Il tutto non avviene senza dolore.
Nei due mesi che seguono l’incidente è interessante notare come salti tutto l’innecessario, come avviene per chiunque debba sopravvivere. Un esempio sono gli stereotipi di genere: una squadra di rugby, un gruppo di maschi comuni, che si dicono tra loro frasi come “Pancho, stringimi forte” sennò muoiono di freddo. Quando cambiano i rapporti di potere - e qui è la natura e l’ostilità del ghiacciaio a prendere il comando - paradossalmente rinasce anche l’umanità, che non si lascia bloccare nei ruoli. Ruoli che valgono nella società patriarcale, ma non nella Società della neve. Qui forza e solidarietà non sono in contrasto, per scelta e per necessità.
Caratteristica del film è non risparmiare a chi lo guarda l’attesa, l’agonia. Benché sia tutto molto circoscritto (la vicenda è specifica, è quella del 1972), riesce a sembrare anche metaforico. Il dipinto di una condizione esistenziale, di alcune fasi della vita o perfino - nelle visioni più pessimistiche - della vita stessa, proprio come nel Naufragio della speranza di Friedrich.
"Il mare di ghiaccio" (Das Eismeer), conosciuto anche come "Il naufragio della speranza", di Caspar David Friedrich, 1823-24
In un’ottica di genere vale la pena di notare come non solo saltino gli stereotipi omofobici che si esprimono come strani pudori tra maschi, ma anche come questi ultimi (è un film a prevalenza di uomini) a un certo punto riscoprano l’amore. Scriveva in “Autostima” Gloria Steinem: «“Donne che amano troppo” e altri libri simili sono utili - ma perché non esiste niente del tipo “Uomini che amano troppo poco”? Finché gli uomini non s’interesseranno all’amore, all’empatia e alla relazione come le donne, i problemi in quelle aree comuni non potranno essere risolti». Come altre sue intuizioni Steinem coglieva nel segno. In questo film l’amore c’è. Nella disperazione più assoluta è proprio uno dei protagonisti a restituirci a parole e fatti la testimonianza di questo “amore enorme” (così lo definisce e così si percepisce), quando abbraccia Liliana, sua moglie che non è riuscito a salvare, e decide di avere una missione: riportare quell’amore enorme ai suoi figli. Il vero amore è un testimone, non muore con te, si passa. Per dirla sempre con lui: «Questa ferita non ti rende inutile».
Di bellezza straziante il finale con la breve ripresa fatta da due di loro che tornano in elicottero a salvare gli altri: è una ripresa originale, è in bianco e nero, e nello splendore delle persone che si sbracciano vediamo, finalmente, non il naufragio della speranza ma il ritorno della stessa.
Spoiler del 30.01.24
Spoiler 30.01.2024, 13:30