Wish, il cartone della Disney per il Natale 2023, ha un primo grande pregio. E, visto che ci hanno abituati a degli standard bassi da questo punto di vista, va sottolineato per forza. Tra il 1937 e il 2005 (rilevava l’archivio dati dal Geena Davis Institute, e ribadiva la fumettista Mirion Malle nel suo Commando Culotte) i film Disney, su 91 protagonisti, ne avevano solo 13 donne. Tra queste 13, solo una (1) non cercava l’amore. Bene: Wish ha una protagonista, e non solo non cerca l’amore, ma questo non la tocca neanche di striscio. Per fortuna.
La protagonista è nera, e non essendo una sirena nessuno dovrebbe avere cose da ridire a riguardo. Un altro punto di forza del film è che riesce, come i cartoni Disney di qualche decennio fa, a essere parimenti godibile sia per un pubblico di piccolissimi sia per un pubblico di grandi e grandissimi. Ha abbastanza stratificazioni e simbolismi da non annoiare - tutt’altro - gli adulti, ma non è scritto pensando a questi ultimi.
La trama, in breve e senza spoiler: nel regno di Rosas c’è un mago-re con una grossa “M” sul mantello e la prerogativa di “saper realizzare i sogni di chi glieli affida”. Ma è lui che decide “chi se lo merita”. Il mago-capitalismo e il mito di una meritocrazia che si rivela arbitraria sono al centro della critica delle sceneggiatrici, Jennifer Lee (di Frozen) e Allison Moore (Night Sky e Manhunt) , insieme a Chris Buck, anche regista del cartone insieme a Fawn Veerasunthorn (Zootropolis, Moana).
La protagonista del cartone ha la possibilità di guardare nel cuore del potere - dentro al castello del mago - e ne è disgustata. In lei nasce la consapevolezza di una verità che è un peso, che non libera. Come spesso è per chi entra, col cuore pulito, in certe stanze.

Villain, da: Wish
Tanti i punti a favore del film: il villain (il mago) che è un po’ Scar del Re Leone un po’ Ade di Hercules, un po’ qualcosa di completamente nuovo; un cattivo che sembra buono, che si racconta come tale anche a se stesso, molto plausibile nel suo chiaro narcisismo, evidenziato anche in modo giustamente didascalico dal rapporto con gli specchi, rapporto che saprà ritorcerglisi contro in una sorta di contrappasso dantesco. Nella canzone in cui ribadisce il bene che fa e poi dice «il grazie però dov’è?» c’è tutto il vittimismo e soprattutto l’idea di amore condizionato, di controllo, che ha chi ha una struttura psicologica come la sua.
Questo lo rende un cattivo più sfaccettato dell’ultima dozzina di villain Disney, quindi molto bene. Quali sono i sogni che ritiene meritevoli, perché non rischiosi, per lui?
Cosa pensa che non metterà in pericolo il sistema che faticosamente ha messo su?
Sintetizzando: abiti e soldati (la moda e le forze dell’ordine). Un patriarcato che si circonda di qualche ancella e di qualche cavaliere.

Wush
Altri elementi molto funzionanti di un cartone che celebra, tra le altre cose, il centesimo anniversario della Disney: il character design della stellina panciuta che fa capolino a un certo punto del film, e sembra piacere ai più piccoli. La citazione a Shakespeare, che ci sta sempre (l’essere “fatti della stessa sostanza dei sogni” de La tempesta). Le canzoni, in particolare quella che canta la protagonista (nella versione italiana rifatta magistralmente dalla cantante Gaia, classe 1997) e che ricorda qualche bel momento di Pocahontas. Ma soprattutto il desiderio di rivolta che scorre nei personaggi. Questo è il fulcro e la sorpresa.
Come far passare in un cartone un desiderio violento, quale quello di una rivoluzione? Semplice: facendo capire quanto ingiusta e violenta è l’oppressione che i personaggi subiscono. Rendendola necessaria, quella rivoluzione.
La protagonista si domanda se non sarebbe un furto «riprendersi da soli i sogni». Poi realizza: «Giusto, non gli appartengono». Il furto è quello del mago che incarna il sistema da combattere.
La lotta è l’unica scelta possibile.
La lotta è il sogno. L’unico che rende plausibile riprendersi i propri.
Non si tratta di un’interpretazione forzata, il tema è portato nel cartone in maniera esplicita; perfino nelle canzoni viene chiamato col suo nome:
«Sarà impreparato stavolta / perché è in corso una rivolta».
Gli abitanti di Rosas sono sconvolti dall’inganno di chi ha promesso loro tutto e li ha lasciati con le briciole. Vogliono tutto, ora, ma gli basta qualcosa.
«Un sogno splende in me / Qualche cosa in più se c’è».
Wish è la storia di un popolo ingannato, che si è stancato di credere in un sistema bugiardo e trova la sua forza nella ribellione.
Sorge dunque una domanda. Com’è possibile che la Disney - più zio Paperone, piuttosto che il nemico numero uno del capitalismo - abbia deciso di raccontare una storia del genere, per di più per il suo centenario?
La risposta è nel finale. Ed è più inquietante di quanto non si vorrebbe. Nel cartone, il mago ha il monopolio dei sogni della gente. Finché sognano, non fanno. Finché immaginano e basta, sperando che lui realizzi i suoi sogni, essi subiscono, non agiscono. Sono disposti a compromessi.
Un po’ come quella frase di Mario Monicelli sulla speranza: «La speranza è una trappola inventata dai padroni».
Se si mette in scena una rivolta, forse questa non ci sarà.
Quando Star, la stellina panciuta di cui sopra, fa per andarsene, le viene chiesto: come potremmo ringraziarti?
«È facile, continuando a sognare».
Si vede da lontano il castello e iniziano a esplodere i fuochi d’artificio, in un’autocitazione: è il finale del film, ma è anche il logo della Disney. Più narcisista del mago che ospitava quel castello.
«Se puoi sognarlo, puoi farlo», diceva lo stesso Walt Disney.
Chissà se vale anche per la rivoluzione.

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