Politica e fede

Bioetica in Italia: il conflitto irrisolto tra anima laica e cattolica

Dalla legge 40 alla sentenza 242/2019, tra cure palliative e suicidio assistito: come la radicalizzazione ideologica ha ostacolato un’etica condivisa sull’inizio e la fine della vita

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Di: Emma Fattorini 

In Italia lo scontro dell’anima laica e di quella cattolica sulle questioni bioetiche, eticamente più sensibili, e cioè l’inizio e la fine della vita, è stato talmente acceso, da avere impedito per molto tempo leggi condivise.

Pensiamo alla farraginosa legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita: frutto di una stagione di furioso scontro su principi non negoziabili è a tutt’oggi inapplicata e inapplicabile, contraddittoria, e attuata quasi solo nel privato. O all’estero.

Un percorso non dissimile, anche se in termini ovviamente diversi, è stato quello del “fine vita”, a fronte di uno sviluppo della medicina che consente ormai di protrarre sempre di più la vita oltre i limiti della sua stessa dignità. E, anche in questo caso, invece di trovare un terreno comune di intesa, un compromesso possibile, si sono esasperate le posizioni estreme. Come se le alternative fossero solo o l’eutanasia libera (il fronte laico) o l’ accanimento terapeutico (il fronte dei credenti) .

Attribuendo, per esempio, alla tradizione cattolica una difesa della vita a oltranza, senza rispettare la dignità del malato. Mentre sarebbe utile ricordare che già nella storia dei pontificati Otto-Novecenteschi, persino in quello, “conservatore” di Pio XII, è sempre stato esplicitato il rifiuto all’accanimento terapeutico. E come le varie forme di “dolorismo” siano state considerate, da tempo, forme deviate anche rispetto ai principi cristiani della difesa della vita.

Dagli scontri sul così detto Testamento biologico del secolo scorso alla possibilità di ricorrere alla sedazione profonda fino all’attuale discussione sul suicidio assistito sembrava essersi attenuato quel furore ideologico in favore di un “pluralismo dei principi”; i “valori” non apparivano più “insindacabilmente non negoziabili”.

E, invece, sembra di essere tornati al punto di partenza. Negli ultimissimi anni riesplode con ancora più veemenza un bipolarismo etico sordo e cieco. Sembra di tornare ai tempi passati quando i temi definiti “eticamente sensibili”, erano stati oggetto di uno scontro tra posizioni di tipo radicale e quelle, a volte anche arbitrariamente, considerate di ispirazione cristiana.

In quegli anni lontani il rischio di una pericolosa deriva eutanasica (il così detto “piano inclinato”) era visto dai vescovi italiani anche nel rifiuto dell’alimentazione e dell’idratazione nei casi di malati terminali: l’argomento principale su cui si divisero le diverse posizioni e i vari disegni di legge presentati in Parlamento. Con l’argomentazione che queste somministrazioni sarebbero ormai universalmente riconosciute come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie.

Importante al riguardo fu la Prolusione del cardinale Angelo Bagnasco al Consiglio Episcopale Permanente (22/25 settembre 2008) che auspicava come «in questo delicato passaggio − mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico − non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che, a partire dalla Costituzione, contraddistingue l’ordinamento italiano».

Pochi notarono allora come, ben diversamente da quella italiana, la Conferenza episcopale tedesca (DBK), per mano del presidente − il cardinale Karl Lehmann − nel 1999 aveva firmato un documento congiunto con le Chiese Evangeliche in Germania. Il documento, intitolato “Disposizioni sanitarie del paziente cristiano”, era stato poi rivisto in un testo dove si distinguevano l’eutanasia passiva e l’eutanasia indiretta (potremmo dire oggi suicidio assistito) da quella attiva, che viene sempre condannata. L’eutanasia passiva, invece, era considerata eticamente e giuridicamente accettabile quando fosse consistita nella rinuncia all’accanimento terapeutico, ovvero di terapie straordinarie e sproporzionate rispetto ai risultati attesi.

Infine per quanto riguarda l’eutanasia il Comitato Nazionale di Bioetica si era espresso, nel dicembre 2003, con un ampio documento che precisava come le dichiarazioni anticipate non potessero contenere indicazioni «in contraddizione col diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia [...] il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza» e che «il diritto che si vuol riconoscere al paziente di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di volere, non è un diritto all’eutanasia, né un diritto soggettivo a morire che il paziente possa far valere nel rapporto col medico [...] ma esclusivamente il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare, ove capace».

In tempi più recenti è innovativa la riflessione del Cortile dei Gentili (un autorevole luogo di confronto tra intellettuali laici e cattolici presieduto dal cardinal Ravasi e dal presidente Giuliano Amato) che ha prodotto due documenti interessanti sul Fine vita: il primo (2015) sulle “linee propositive per un diritto della relazione di cura e delle decisioni di fine vita”; il secondo (2024) “Dialogo sul suicidio medicalmente assistito”.

Lo spartiacque più significativo è la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale che individua specifiche e determinate condizioni per la possibilità di accedere al suicidio assistito che sarebbero: l’irreversibilità della patologia, cioè la condizione di inguaribilità, il dolore o la sofferenza intollerabile, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e la lucidità, la consapevolezza nella richiesta.

Cure palliative e suicidio assistito

Quindi no all’eutanasia, sì a condizioni stringenti per accedere al suicidio assistito. Importante il nesso tra cure palliative, sedazione profonda e suicidio assistito. Mentre nell’opinione pubblica, al di là delle diverse posizioni, è chiara la distinzione tra suicidio assistito ed eutanasia, lo è molto meno quella tra sedazione profonda e suicidio assistito. Nel caso del suicidio assistito la finalità è la morte, nel caso delle cure palliative è la fine della sofferenza.

Per molte persone c’è un fraintendimento (anche strumentalizzato in tanti scontri ideologici del passato) tra il confine del suicidio assistito e cure palliative, come se le seconde fossero causa o comunque prodromo del primo. Almeno il più possibile e fino a che è possibile. E, infatti, “la via di fuga”, il ricorso pratico al suicidio assistito, diminuisce quantitativamente, anche solo nella richiesta, se il paziente sa che è possibile ricorrervi.

È sempre importante partire da questo approccio, come nella migliore bioetica: quello della singola persona, del caso specifico e non partendo da principi astratti.

Dobbiamo sottolineare con forza la priorità delle cure palliative nelle politiche sanitarie, renderle attive in tutto il territorio nazionale, insieme a un percorso di accompagnamento dei malati terminali: hospice, assistenze domiciliari, e tutto ciò che reca sollievo al malato e a chi gli sta vicino. Soprattutto se solo e indigente.

C’è anche da aggiungere che il “ritardo” nel ricorso alle cure palliative non avviene solo per la carenza delle politiche sanitarie ma avviene anche nel rifiuto, spesso inconsapevole, da parte del paziente ad accettare passivamente “che non c’è più speranza”. Sembra una tematica scontata e in qualche modo eccentrica rispetto alla discussione sul suicidio assistito, ma non lo è. Non solo perché nella conoscenza del problema queste cure sono sconosciute o inapplicate in tante parti d’Italia, o ancora confuse con una determinista accelerazione della morte.

Infine, ignorare le cure palliative allontana tante occasioni di intervento concreto e pragmatico che potrebbero avvicinare in uno sforzo comune posizioni anche molto diverse tra loro.

Il parere del Comitato nazionale di bioetica del 1919 le definiva una «priorità assoluta per le politiche della sanità (...) un prerequisito della scelta di percorsi alternativi del malato». Il legislatore ha fatto tanto, sulla carta, per le cure palliative ma pochissimo per la loro attuazione, specie nelle regioni meridionali. Quello di rendere operante la legge che già c’è sulle cure palliative è fondamentale: nelle regioni del sud Italia è applicata solo per il 25% rispetto al nord.

Enfatizzare la possibilità del ricorso al suicidio assistito come “via di fuga” non incorre nel rischio del “piano inclinato” ma invece, se si aiutano, stando loro vicini, le persone nel momento più difficile della loro vita, le si aiuta davvero a incontrare una “buona morte”.

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SEIDISERA 25.06.2025, 18:00

  • Keystone

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