Negli ultimi tempi sono apparsi molti libri che trattano, direttamente o indirettamente, il tema del vuoto (se vuoi saperne di più). Forse non è una semplice coincidenza: è come se queste riflessioni rispondessero al senso diffuso di smarrimento, di perdita di valori e di significato che accompagna la nostra epoca — segnata da guerre, crisi globali, degrado ambientale e crescente povertà. Molti percepiscono il proprio mondo interiore come un vuoto angoscioso e cupo. Dove trovare risposte?
Thích Nhất Hạnh, il celebre monaco buddhista vietnamita, ci offre una via per comprendere la realtà e non esserne vittime. Ci insegna a guardare il «vuoto oscuro» non come mancanza, ma come spazio di connessione e libertà. Sono usciti recentemente due suoi testi dedicati a questo tema: Il cuore dell’insegnamento del Buddha e Il nocciolo della vacuità: comprendere la filosofia di Nāgārjuna (Ubilibri, 2025).
Altri autori hanno affrontato il vuoto da prospettive differenti — non come esperienza interiore, ma come realtà fisica e creativa da cui tutto sorge. Tra questi, Guido Tonelli con L’eleganza del vuoto. Di cosa è fatto l’universo e Federico Faggin con Indicibile e Oltre l’invisibile.
Faggin, in particolare, va oltre la fisica, sostenendo la necessità di integrare la coscienza e l’esperienza soggettiva nella ricerca scientifica, aprendo così un ponte tra scienza e spiritualità.
Thích Nhất Hạnh ci ricorda che soffriamo perché ci identifichiamo con pensieri, desideri, ruoli e ricordi, dimenticando che tutto è in movimento: è questo il flusso naturale della vita. Spesso ci diciamo: «Non dovrebbe essere così», «Voglio che le cose restino come mi fanno stare bene». Ma — insegna il maestro — tutto è in relazione e ogni cosa è frutto del cambiamento.
Con il suo linguaggio poetico, Thích Nhất Hạnh ci invita a vedere che il fiore non esiste in modo indipendente, ma è pieno di sole, di pioggia, di terra e di tempo: «Se sei un poeta, vedrai chiaramente che questa carta è fatta di nuvola». E ancora: «Nulla esiste da solo, ogni cosa è in ogni altra».
Anche noi non esistiamo da soli: siamo il risultato di una miriade di relazioni, prima fra tutte quelle con gli altri esseri. Questa consapevolezza ci aiuta a vedere la realtà in modo meno illusorio, a sciogliere le barriere tra “io” e “altro”. Ne nasce la pace, e si manifesta una compassione spontanea: riconosci che l’altro è parte di te, e non puoi più ferirlo. È l’antidoto più profondo al narcisismo dilagante.
Il vuoto, allora, non ci conduce alla depressione ma ci apre alla libertà interiore. Attaccarci al nostro modo di vedere e sentire diventa invece una prigione: ci sprofonda nell’angoscia. Quando il senso di separazione si rilassa, la sofferenza non trova più radice. Non perché la vita diventi perfetta, ma perché non c’è più un centro rigido che la giudica o la teme.
«Noi pensiamo di essere un sé solido, come un blocco di ghiaccio. Ma in realtà siamo un flusso di energia, in continuo scambio con l’aria, l’acqua, il cibo, le emozioni, gli altri esseri. Quando realizziamo questo, l’io si scioglie e resta solo la danza della vita».
Così Thích Nhất Hạnh spiega il significato della vacuità (śūnyatā), cioè del vuoto: «La vacuità non significa che le cose non esistono. Significa che non possono esistere da sole, in modo indipendente. Un fiore è fatto solo di elementi non-fiore: nuvola, sole, terra, tempo, spazio, coscienza. Se togli la nuvola, il fiore non può esistere. Vedere la vacuità del fiore è vederne la meravigliosa interdipendenza con tutto l’universo».
Anche la morte, allora, smette di impaurirci: «Una nuvola non può morire. Può solo trasformarsi». «Quando comprendiamo la vacuità, vediamo che non c’è nascita e non c’è morte, non c’è essere e non c’è non-essere. Tutto è in continua trasformazione, in inter-esistenza».
Per Thích Nhất Hạnh, comprendere il vuoto non è un esercizio mentale, ma un’esperienza di pienezza, gratitudine e libertà. La meditazione serve proprio a condurre verso questa consapevolezza: riconoscere l’interdipendenza, aprire il cuore alla compassione. E questo non accade solo in meditazione formale: per il maestro, la vacuità si pratica nel quotidiano — lavando i piatti, camminando, respirando. Ogni gesto diventa un modo per riconoscere la rete invisibile che sostiene la vita.
Thích Nhất Hạnh afferma che la vacuità è, in un certo senso, il riflesso esperienziale di ciò che la fisica moderna rivela sulla materia. La fisica descrive le relazioni tra i fenomeni; la vacuità è la consapevolezza diretta di quelle stesse relazioni, vissuta nel cuore, non solo compresa dalla mente.
«Gli scienziati hanno scoperto che la materia non è solida come crediamo. Un atomo è quasi vuoto, e ciò che lo tiene insieme è un gioco di forze e relazioni. Anche noi siamo come questo: una rete di condizioni in continuo cambiamento. Quando comprendiamo questo, smettiamo di sentirci separati dal mondo».
Il buddhismo mongolo
Alphaville 18.11.2024, 11:05
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