Da quando la scienza storica, dall’Illuminismo ai giorni nostri, ha chiarito le origini del cristianesimo, a partire dalla figura del Gesù storico e dal suo inserimento nella teologia paolina, è nata la contrapposizione tra ciò che è in realtà proprio dell’uomo Gesù (da cui il neologismo “gesuano”) e la dottrina creata su di lui, chiamato il Cristo. Secondo questa interpretazione, Gesù va visto essenzialmente come un maestro, un profeta, tutto all’interno della tradizione giudaica, per cui si sottolineano i passi evangelici ove questa appartenenza all’ebraismo è chiara: basti pensare, ad esempio, all’episodio della donna cananea che supplica Gesù che gli guarisca la figlia, ricevendone però un rifiuto, perché i non ebrei sono “cani”, ovvero esseri impuri che non vanno neppure toccati, e solo per la sua insistenza - «Anche i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei padroni» - ottiene che la sua richiesta venga esaudita. Per correttezza va detto che si può fare anche l’operazione opposta, ovvero mettere in evidenza i brani evangelici in cui Gesù prende le distanze e si oppone, anche duramente, alla tradizione giudaica, sottolineando la diversità, la novità del suo insegnamento, ma non è il caso di insistervi qui.
Il fatto è che, comunque, se Gesù viene visto solo come maestro, profeta, ecc., e non come il Cristo, il Figlio del Dio vivente, viene meno la credenza nella sua divinità: pre-esistenza divina, incarnazione, morte redentrice dal peccato, resurrezione, vita eterna che aspetta i fedeli. In poche parole, viene meno il cristianesimo, ovvero quella religione che, buona o cattiva che fosse, ha tenuto insieme la società per secoli. Il suo venir meno ha dato luogo a un tempo in cui, come ben vide Nietzsche, paghiamo per l’esser stati cristiani: perdiamo il centro di gravità che ci faceva vivere; precipitiamo rovinosamente nei valori opposti, con la stessa massa di energia con cui siamo stati cristiani; non sappiamo più come cavarcela. È chiaro che non poteva esser altro che così, se la credenza nella divinità del Cristo era fondata su una rappresentazione mitologica, destinata a cadere una volta compresa nella sua genesi.
Occorre però prendere in considerazione un dato essenziale: la affermazione della divinità di Gesù può derivare non da una rappresentazione mitologica, credenza in eventi esteriori in cielo ed in terra, ma da una esperienza interiore, conoscenza di noi stessi, nel nostro proprio fondo. Come sinteticamente scriveva il benedettino francese Henri Le Saux (monaco hindu col nome di Abishiktananda) nel suo Diario, «Gesù non avrebbe potuto esser detto theós [dio] dall’uomo, se questi al fondo di sé non avesse sentito la propria theotés [divinità]».
Ricordiamo che nei vangeli Gesù è definito “Dio” solo in Giovanni, e solo in due punti ben precisi di quella straordinaria costruzione che è appunto il Quarto evangelo. Il primo punto è all’inizio, nel Prologo, ove il Lógos, che era in principio e che è Dio, viene riconosciuto diventare carne e porre la sua dimora tra noi in Gesù, che viene al mondo come luce vera che illumina ogni uomo. Il secondo punto è alla fine, quando l’apostolo Tommaso, l’incredulo che crede soltanto quando vede e tocca con mano, si rivolge a Gesù esclamando: «Mio Signore e mio Dio».
Qui sono da sottolineare le parole che l’evangelista mette in bocca a Gesù in risposta a Tommaso: «Perché mi hai visto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto ed hanno creduto». Ad una credenza religiosa fondata sull’esteriorità, sul “miracolo”, che non è capace di dare beatitudine perché resta alla superficie dell’anima, il testo evangelico contrappone così la beatitudine di coloro che credono non perché hanno veduto, ovvero per una testimonianza dei sensi, ma per l’esperienza interiore, testimonium spiritus sancti, ovvero per quella fede che non è credenza, ma conoscenza dello spirito nello spirito, come la definisce Hegel.
Questi riconoscono Dio nell’uomo Gesù, perché hanno esperienza della divinità nell’uomo, dell’uomo. La divinità di Gesù non è qui creduta come si crede a un mito, a una mera rappresentazione, ma affermata come espressione della vera realtà umana, spirituale, ben più profonda di quella corporea e psichica, comunemente avvertita come “naturale”.
Se verifichiamo infatti cosa significhi nel nostro linguaggio il rimando a Dio o al divino, scopriamo che è sempre fatto per indicare quello che si sente o pensa come valore più alto, tanto alto da porsi in una dimensione che ci appare in certo modo come al di sopra della comune condizione umana, dunque come “soprannaturale”.
Anche in riferimento a Gesù, la questione vera è dunque ciò che pensiamo, o, meglio, ciò che sappiamo, della nostra realtà. «Conosci te stesso», esortava il Dio in Delfi, «e conoscerai te stesso e Dio», completava giustamente uno di quei Padri greci della Chiesa che hanno costruito la teologia cristiana. Che la conoscenza di Dio derivi dalla conoscenza di noi stessi è pensiero comune dei grandi maestri spirituali, da san Giovanni della Croce a Eckhart, che specifica anche esser peccato mortale non partire da noi stessi, quando parliamo di Dio, ricordando spesso il precetto di Boezio, secondo cui, trattando del divino, non si deve assolutamente cedere all’immaginazione, ma usare solo l’intelligenza.
Essere gesuani significa dunque prendere Gesù come un maestro di vita, di morale, accanto ai grandi maestri ci sono stati nella storia Socrate, Buddha ecc.: una posizione oggi molto diffusa, dato appunto il venir meno dell’ antica credenza religiosa, e che ha un esito di tipo sincretistico, finendo quasi fatalmente per confluire nella cosiddetta new age. Essere cristiani significa invece ritenere Gesù il Cristo, vero uomo vero Dio, e ciò avviene sia nel modo più comune e storicamente più diffuso della ingenua credenza religiosa, sia in quello essenziale e profondo cui abbiamo poco sopra accennato. Resta da rilevare che il primo non è falso, sbagliato, ma – anzi - preparatorio al secondo, che difficilmente nasce senza il primo, e in esso è implicitamente contenuto. Non a caso un grande filosofo medievale, Guglielmo di Ockham, scriveva che la fede cristiana è tutta contenuta nella devozione della vecchietta che scalda le panche della chiesa.
Tre donne al sepolcro di Cristo
Quilisma 20.04.2025, 10:00
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