Cristianesimo

Gesù, profeta e non Dio: una rilettura dell’incarnazione alla luce della critica moderna

A 1700 anni dal Concilio di Nicea, viene tradotto in Italia un importante studio del teologo John Hick che propone un’interpretazione simbolica della divinità di Cristo, sfidando la dottrina tradizionale e aprendo al dialogo tra le fedi

  • 4 giugno, 14:00
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Di: Paolo Rodari 

Il dibattito sull’identità di Gesù, su chi sia stato e su cosa lui pensava di essere, è oggi sempre più vivo all’interno del cristianesimo, specialmente alla luce dei più recenti studi sul Gesù storico. È ormai raro trovare chi sostenga che Gesù avesse consapevolezza della propria natura divina o che abbia insegnato di essere l’incarnazione di Dio, una cosa sola col Padre. Gli ultimi studi esegetici, più o meno recenti, infatti, confermano come queste affermazioni sono elaborazioni teologiche sviluppate dalle prime comunità cristiane dopo la Pasqua, poi formalizzate nel 325 nel Concilio di Nicea.

Ma chi fu, allora, Gesù? A questa domanda ha cercato di rispondere John Hick (1922-2012), teologo e filosofo della religione di fama internazionale, in un’opera pubblicata nel 1993 e recentemente tradotta da Gabrielli Editori: “La metafora del Dio incarnato. Ripensare Cristo in un’epoca pluralista”. L’uscita italiana del libro, in coincidenza con i 1700 anni da Nicea - una data importante per la cristianità che Papa Leone onorerà prossimamente con un viaggio in Turchia - propone una rilettura della divinità di Gesù alla luce della critica biblica moderna e della crescente consapevolezza dell’interconnessione tra le religioni storiche mondiali.

Per Hick, la dottrina dell’incarnazione non va intesa in senso letterale. Come osserva Paolo Gamberini nella prefazione, «non c’è alcun essere preesistente che discende dal cielo e si incarna». E aggiunge: «L’idea che Gesù sia al tempo stesso umano e divino (unione ipostatica) è contraddittoria e non più sostenibile in epoca moderna. L’immagine del Dio incarnato serve a mettere in luce la singolarità di un uomo della Galilea che, nel primo secolo, ha vissuto una profonda trasformazione personale: dal centrarsi su di sé al donarsi agli altri e al Divino».

Gesù, secondo Hick, visse senz’altro un’esperienza intensa e coinvolgente della presenza di Dio, tanto che la sua vita e il suo insegnamento continuano a rendere Dio reale per chi ne è ispirato. Ma non si percepiva come incarnazione divina. La sua visione del proprio ruolo si collocava piuttosto nell’escatologia di restaurazione tipica del giudaismo a lui contemporaneo. Come scrive anche il teologo statunitense Ed Parish Sanders, «egli pensava che il regno sarebbe arrivato a breve e che Dio stesse operando in modo speciale nel suo ministero». Le fonti storiche lo collocano, infatti, nel contesto dell’escatologia giudaica, come fondatore di un movimento che condivideva le aspettative di quella visione teologica. In questo quadro, Gesù si considerava l’ultimo messaggero prima dell’instaurazione del regno di Dio.

Hick, in sostanza, sottolinea che Gesù si vedeva come un profeta escatologico venuto a proclamare una nuova era imminente. Di qui il continuo annuncio, in scia al Battista, sul Regno che deve venire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Tuttavia, un movimento basato su tale attesa poteva avere vita breve. E così è stato: l’immaginario apocalittico del giudaismo del I secolo, infatti, è ormai tramontato. La versione di Gesù di quella speranza durò solo pochi decenni tra i suoi seguaci, prima di essere sostituita da una narrazione più duratura e adatta al mondo pluralista dell’Impero romano: Gesù, da profeta escatologico, fu reinterpretato come Dio Figlio disceso dal cielo per vivere tra gli uomini e salvarli attraverso la morte espiatoria. Ma dire Figlio di Dio, a quel tempo, significava tante cose. Il concetto di divinità era molto meno chiaramente definito e le condizioni per il suo utilizzo molto meno esigenti. C’erano, secondo l’espressione di Paolo, «molti dèi e molti Signori». O, per citare l’arcivescovo Michael Ramsey: «Il titolo di “Figlio di Dio” non ha di per sé un grande significato, perché negli ambienti ebraici potrebbe significare non più del Messia o addirittura dell’intera nazione israelita, e nell’ellenismo popolare c’erano molti figli di Dio, cioè uomini santi ispirati». Spiegando meglio questo aspetto, il teologo James D. G. Dunn sottolinea che, nel mondo romano del periodo neotestamentario, «divino», «figlio di Dio» e persino «Dio» erano usati in modo più o meno intercambiabile. Gli eroi «erano spesso chiamati “divini” in Omero, e da Augusto in poi “divino” divenne un termine fisso nel culto imperiale: “il divino Cesare”. Ancora una volta troviamo che gli eroi erano talora chiamati “dio”; e che “dio” era un titolo abituale d’imperatori e re dall’epoca ellenistica in poi: pensiamo, per esempio, ad Antioco Epifane (= Dio reso manifesto)».

Per questo Hick, come altri teologi prima e dopo di lui, ribadisce che la dottrina dell’incarnazione non può essere presa alla lettera. Non c’è alcun essere celeste preesistente disceso sulla terra. L’idea che Gesù fosse al contempo divino e umano, secondo la dottrina dell’unione ipostatica, è oggi insostenibile. Come scrive ancora Gamberini, il concetto del Dio incarnato intende soltanto sottolineare l’eccezionalità di un uomo che, nel primo secolo, ha vissuto un radicale passaggio dall’auto-centramento al dono di sé, divenendo così un segno tangibile della Realtà divina. Certo, fino a un centinaio di anni fa (e ancora

oggi diffusamente negli ambienti non colti) si riteneva che la fede in Gesù come Dio incarnato poggiasse saldamente sul suo esplicito insegnamento: «Io e il Padre siamo una cosa sola», «Chi ha visto me ha visto il Padre», e così via. Ora, però, per citare uno dei recenti difensori della cristologia calcedoniana, Adrian Thatcher, «non c’è quasi nessun competente studioso del Nuovo Testamento che sia disposto a difendere l’opinione che le quattro volte dell’uso assoluto di “Io sono” in Giovanni, o la maggior parte degli altri usi, possano essere storicamente attribuiti a Gesù». Di qui, quindi la tesi di Hick: Gesù venne visto come l’incarnazione di Dio perché sperimentò la trasformazione del suo essere umano donandosi interamente agli altri.

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  • Luisa Nitti

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