Riflessioni

L’inganno degli occhi, quando vedere non è credere

Viaggio tra illusioni ottiche e verità nascoste. Come la cecità può illuminare e la vista può accecare

  • Oggi, 14:00
“Park Dreams”, dipinto originale dell'artista non vedente John Bramblitt

“Park Dreams”, dipinto originale dell'artista non vedente John Bramblitt

Di: Gabriella Caramore, scrittrice, ha curato varie trasmissioni per Rai Radio 3, tra cui “Uomini e Profeti”

Se è vero che nella cecità che colpisce molti uomini e donne – e quasi tutti in età molto anziana – può nascondersi la possibilità di vedere oltre le apparenze, di conoscere l’invisibile che sostanzia le nostre vite, è vero anche che la vista, il vederci bene, con nitore, non è assolutamente garanzia di corretta visione del mondo, di conoscenza dei meccanismi delle cose, di capacità di penetrazione in direzione della verità.

La vista è, come tutti gli altri sensi, soggetta ad errore, a travisamenti, a inganni. Basta pensare a come fosse indubitabile, fino alle soglie dell’età moderna, dar credito alla visione del sole che si leva al mattino e si corica la sera, e come a nessuno – tranne le grandi eccezioni che conosciamo, e forse ad alcuni visionari sconosciuti – fosse venuto in mente che forse la realtà poteva discostarsi radicalmente dall’apparenza.

Giordano Bruno ne era furiosamente convinto sulla base quasi soltanto dei suoi pensieri; Galileo Galilei anche poggiandosi sulle verifiche che gli fornivano i suoi ancora rudimentali strumenti. Del resto, anche nella nostra vita quotidiana gli abbagli sono all’ordine del giorno. E non solo per le effettive illusioni ottiche che confondono le nostre lenti naturali: leggere una parola per un’altra, non salutare qualcuno che conosciamo bene scambiandolo per uno sconosciuto, calcolare male una distanza, e così via.

Ma ciò che riguarda il vedere non ha a che fare soltanto con l’esercizio degli occhi. Ha a che fare anche con una complicata rete di fili interiori che ingarbugliano le forme del nostro conoscere, arrivando a correggere anche le dimensioni fisiche che regolano i nostri sensi.

Perché qualcuno trova meraviglioso un volto, un paesaggio, un dipinto, e qualcun altro può trovarlo mediocre, o restarvi indifferente? Perché qualcuno mette a fuoco un particolare, che a un altro rimane invisibile? Perché se si chiede a un gruppo di persone di descrivere un individuo il più delle volte si avranno ritratti parzialmente o anche completamente diversi? Questo ha a che fare, ovviamente, con la complessità della persona umana. Le leggi fisiche non potrebbero mai essere identiche per ciascun individuo. Ma certo si rimane sconcertati nel constatare quanto la cecità o la visione possano incidere sul piano soggettivo. Si pensi agli abbagli che quasi ciascuno di noi ha sperimentato in ambito amoroso.

Quando si è molto giovani – ma non soltanto – accade sovente di essere soggiogati da un incontro. L’altro – l’altra – diventa allora l’unico, il solo, l’oggetto di un travolgente desiderio. La sensibilità erotica che si orienta in maniera spasmodica verso quel soggetto esclusivo non di rado si trasforma anche in passione di affetti, di intelletto, di consuetudini. Non è raro che subentri anche una cecità selettiva, che censura aspetti meno seducenti, oscurando segnali di pericolo che potrebbero risultare evidenti se solo si allargasse il campo visivo, si mettessero a fuoco i dettagli con più attenzione.

Quante ragazze, ma anche quanti uomini, hanno trascurato segnali, sintomi, avvisaglie, e si sono infilati in un vicolo cieco di incomprensioni, delusioni, rancori, in alcuni casi con esiti davvero drammatici? Una atrofia ottica. Un difetto di vista. E dunque un difetto di comprensione. Non accorgersi in tempo dei singoli indizi che avrebbero potuto svelare il dramma che si preparava. Non voler prendere in considerazione i piccoli “disvelamenti” che avrebbero portato più vicino alla verità.

Allo stesso modo, anche se con diverse manifestazioni, vi è una cecità che, soprattutto in alcuni periodi della storia umana, sembra annebbiare le coscienze, pervertire gli umori, nascondere verità palesi. Questo è sempre accaduto, nel corso della vicenda umana.

Ma, se vogliamo guardare alla situazione contemporanea, le guerre devastanti che si accendono come fuochi contagiosi in molti stati del pianeta, radendo al suolo città e villaggi e campagne, mietendo vittime, seminando dolore, diffondendo corruzione, abbattendo valori, non suscitano ovunque la riprovazione che dovrebbero. Le folle sembrano subire la menzogna, esserne affascinate. Amano illudersi. Seguono chimere. Si lasciano sedurre. Certo, continuano ad esistere coscienze critiche, o semplicemente nuclei di comunità che badano al loro vivere bene, che eseguono con consapevolezza il loro compito. Ma è l’insieme della comunità umana che ne risulta inquinato. O quanto meno turbato. Ne risente un clima di fiducia. Di speranza. Di attesa di cose nuove.

Giacomo Leopardi scrive “La Ginestra”, l’ultima delle sue poesie, nel 1837, l’anno della sua morte, a Napoli. Una sorta di addio al mondo, ma anche di testamento del suo pensiero: il rapporto, talvolta perverso, sempre complicato, tra natura e storia, tra disposizione al male e desiderio di bene. L’incipit è un versetto dell’Evangelo di Giovanni: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” (Giov. 3,19). Una sorta di iscrizione che Leopardi vuole apporre sulle rovine della natura e sulle derive della storia, per rendere però evidente – forse addirittura al di là delle intenzioni – che non è una legge ineluttabile quella che inclina l’umanità verso il male, ma una precisa volontà di volta in volta manifestata. Al male si potrebbe resistere, se si volesse, come resiste la piccola ginestra, “più saggia” e “tanto meno inferma dell’uom...”.

Basterebbe accogliere la luce, ripulire gli occhi dall’ingombro della cecità, guardare con dubbio e con sospetto, ma con acume, al trionfo delle sorti “magnifiche” e “progressive”; aver cura della creatura piccola che accoglie e riverbera la luce che ceneri e pietre vorrebbero offuscare. Perché gli umani scelgano talvolta le tenebre, preferiscano affondare nella cecità, lasciarsi attrarre dal male invece che dal bene, nessuno lo ha spiegato davvero. Forse semplicemente per il fatto che l’umano è impastato di tenebre e luce, di argilla e di respiro, e che il bene è un piccolo fuoco che si fa strada a fatica nelle trappole della oscura palude. E richiede semplicità, fatica, avvedutezza, cura. Richiede uno sguardo limpido che trovi il suo profilo nella crescita di una responsabilità verso ciò che ci è stato affidato.

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Vedere l’ecografia con le mani

Millevoci 26.03.2025, 10:30

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  • Axel Belloni e Alice Pedrazzini

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