Annosa polemica quella sul latino: serve, non serve? Si toglie e si rimette nelle pseudo- riforme delle tribolate scuole medie italiane. Da ultimo, in gennaio, il ministro dell’Istruzione e del Merito dell’Italia, Giuseppe Valditara, ha annunciato la reintroduzione di questa materia di studio nelle scuole medie a partire dall’anno scolastico 2026/27. Da allora, si sono rinfocolate le polemiche tra chi considera il latino un mezzo prioritario per tutelare la nostra identità culturale e chi lo bolla come roba passatista, reazionaria, di destra. Eppure, e non certo da oggi, è arrivato un inequivocabile altolà da grandi intellettuali del “fronte opposto”, come, tra gli altri, Luciano Canfora e Ivano Dionigi: il latino non è né di destra né di sinistra. E, chi afferma il contrario, chiude la questione Canfora con la consueta efficace franchezza, dà prova «di non capire niente». Il latino non può, aggiunge l’ex rettore dell’Università di Bologna Dionigi, essere ridotto a «questione ideologica» o «bandierina identitaria».
E’ questa una diatriba, fatte ovviamente le debite differenze, che si è riproposta anche nella Chiesa cattolica dai tempi del concilio Vaticano II, di cui, il prossimo 8 dicembre, ricorrerà il 60° anniversario della chiusura. E’ da sessant’anni a questa parte, che continua ad agitare gli animi dei cosiddetti conservatori e progressisti. Il latino è divenuto, via, via un vero e proprio vessillo dei loro scontri.
Eppure, va detto ancora una volta, liquidando l’opposta sentenza come un marchiano falso storico, che il Concilio non ha mai bandito il latino dalla liturgia e dagli altri usi ecclesiali. Preceduti dalla costituzione apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII (22 febbraio 1962), due documenti conciliari, la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium e il decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, hanno non solo mantenuto in essere l’uso della lingua latina ma caldamente raccomandato. E si devono al “Papa del Concilio”, il grande e non ancora pienamente compreso Paolo VI, due benemerite istituzioni per lo studio e la promozione della lingua e della cultura latina, rispettivamente fondate nel 1964 e nel 1976: il Pontificio istituto superiore di latinità, divenuto nel ’71 la Facoltà di Lettere cristiane e classiche dell’attuale Università pontificia salesiana, e la Fondazione Latinitas, soppressa da Benedetto XVI nel 2012 e contestualmente confluita nella neo-eretta Pontificia accademia di latinità. È stato proprio Montini, d’altra parte, a intervenire ripetutamente sul latino quale lingua ufficiale della Chiesa, concetto poi ripreso e nuovamente esplicitato da tutti i suoi successori, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. E, pur non parlandone in tali termini, anche Francesco ha comunque sottolineato più volte l’importanza del latino – come, ad esempio, nel messaggio del 2023 alla Pontificia accademia di latinità –, cui è spesso ricorso, «per spiegare il significato più profondo di parole, concetti teologici o filosofici in modo semplice e comprensibile».
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Durante il pontificato di Bergoglio, inoltre, l’account papale Twitter, poi X, in lingua latina, a cura dei latinisti della Segreteria di Stato vaticana, ha superato il milione di follower, mentre su Radio Vaticana è stato dato il via, ogni domenica, a un notiziario tutto in latino, Hebdomada Papae, e a uno specifico programma, Anima Latina, condotto in italiano ma dedicato a cultori e cultrici dell’antica lingua. Da parte sua, Leone XIV, che legge correntemente il latino e, nella scelta del nome pontificale, si è espressamente ispirato a Leone XIII, il papa della Rerum Novarum – che è stato anche uno dei più grandi latinisti dei suoi tempi – ha dato prova di attenzione e amore per la lingua ufficiale della Chiesa sin dalla sera dell’elezione (8 maggio 2025), impartendo nuovamente in latino la prima solenne benedizione Urbi et Orbi.
Su tutta questa questione mette ordine, con il suo consueto acume, il giornalista e scrittore Francesco Lepore, nel suo ultimo libro Bellezza antica e sempre nuova. Il latino nel mondo di oggi, Edito da Castelvecchi in uscita in questi giorni, con prefazione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi. E con la sua nota acribia ha dedicato alla questione interna alla Chiesa uno specifico paragrafo dal titolo provocatorio Chiesa e latino: una storia d’amore finita? In questo libro, dai temi difficili ma dalla scrittura scorrevole e piacevolissima troviamo anche una selezione di cinquanta brevi articoli, in lingua latina con traduzione italiana a fronte, su fatti, persone, curiosità degli ultimi cinque anni.
Già latinista pontificio in Segreteria di Stato, l’autore, che ha abbandonato il ministero sacerdotale nel 2006 per motivi di coscienza e vivere apertamente la propria omosessualità, cura infatti dal 2020 una rubrica quotidiana in latino su Linkiesta.it, da cui sono tratte le commentatiunculae scelte e raccolte nel libro.
Nelle osservazioni introduttive al volume Lepore spiega, con grande chiarezza, l’utilità del latino quale valido mezzo per migliorare le capacità espressive in italiano, potenziare il nostro vocabolario, conoscere più approfonditamente le lingue europee e accedere al complesso della cultura occidentale. E osserva anche come si debba «principalmente, sebbene non solo, alla Chiesa cattolica» se lo stesso latino è anche «sopravvissuto fino ai nostri giorni come lingua non solo di studio ma anche di comunicazione» (p. 26). Con esplicito riferimento proprio agli scriptores della citata Sezione latina della Segreteria di Stato vaticana, che, componendo in tale lingua i più importanti documenti pontifici, contribuiscono ad attualizzare il latino col conio di neologismi o l’attribuzione di nuovi significati a parole già esistenti, per esprimere adeguatamente concetti e realtà contemporanei. Ed ha perfettamente ragione quando definisce infondate «le mai sopite voci, rimesse periodicamente in circolo dai mezzi d’informazione, sull’abolizione e sulla proscrizione dell’uso del latino nella liturgia e nella vita della Chiesa» (p. 29). Voci, che sono da attribuire anche a una certa negligenza di preti e vescovi nel seguire le numerose direttive pontificie sull’uso del latino, ma soprattutto la grossolana identificazione da parte di alcuni media «tra lingua e antica forma del rito romano», complice la liberalizzazione della cosiddetta “Messa tridentina” o “preconciliare”, disposta da Benedetto XVI nel 2007 e totalmente ridimensionata – al limite quasi della proibizione – da Francesco nel 2021.
Personalmente appartengo a quella generazione, che ha vissuto con entusiasmo la stagione conciliare e ha positivamente salutato l’introduzione delle lingue nazionali nella liturgia per una maggiore comprensione dei misteri celebrati e della Parola di Dio annunciata. Ma, proprio secondo il dettato della Sacrosanctum Concilium, riconosco, allo stesso tempo, la bellezza e la ricchezza della liturgia in latino. Né, in linea di massima, sono totalmente contraria alla Messa in rito romano antico ( se non quando è celebrata, partecipata e promossa, a puro scopo polemico e divisivo, come nei seguaci di Marcel Lefebvre per rigettare il Vaticano II): da sempre nella Chiesa sono molti e vari i riti legittimi, che esprimono l’unica ricchezza della fede. Lo dice Francesco Lepore in una nota, «le restrizioni, imposte con zelo forse eccessivo» da Bergoglio con la Traditionis custodes, «hanno invece non solo acuito le divisioni intraecclesiali tra “conservatori” e “progressisti” ma anche favorito, più in generale, un’ulteriore polarizzazione delle posizioni pro e contro il latino». E ciò non è certamente un elemento positivo.

Il canto della purezza
Quilisma 01.06.2025, 10:00
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