Buddismo

L’osservazione del gioco della vita

Quando saremo in grado di osservare il gioco della vita così com’è, smetteremo di vivere come naufraghi, e cominceremo ad abitare lo spazio di colui che, seduto sulla riva, osserva

  • Ieri, 11:39
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  • Keystone
Di: Tommaso Giacopini 

Nessuno di noi può affermare con certezza di conoscere lo scopo della vita, perlomeno non in maniera categorica e definitiva. Ognuno se ne fa un’idea propria, intima, che però resta frammentaria e irrisoria, più simile a un auspicio o a un’intuizione confusa che a una realtà alla quale potersi fermamente aggrappare.

Il significato della vita nella cultura

Filosofie, sistemi di pensiero e religioni si sono espressi ampiamente sul tema del significato della vita. In Europa abbiamo avuto illustri pensatori come Sartre e Camus (preceduti in parte anche da Nietzsche e Kierkegaard) che hanno tentato di risolvere la questione, giungendo alla conclusione che l’universo sia privo di significato oggettivo e che spetti quindi all’individuo trovarne uno proprio, soggettivo, per riempire un’esperienza altrimenti futile e penosa.

La scienza occidentale si schiera con questo stesso filone, aggiungendo che la vita biologica è un fenomeno estremamente raro, sviluppatosi grazie a una serie di eventi puramente casuali che, nel corso di miliardi di anni, hanno permesso l’evoluzione di una coscienza – la nostra – che ora si vanta di vedere un significato profondo in una vita che di per sé non ne ha. Eppure, a noi esseri umani, dare significato al mondo viene estremamente naturale, quasi fosse una nostra funzione primaria. Possiamo quindi scartare del tutto l’ipotesi di una coscienza o di un disegno superiore? Difficile dirlo.

L’influenza delle emozioni sulla memoria

L’essere umano interpreta ogni avvenimento attraverso il filtro della propria emotività. Capita spesso di confrontarsi con qualcuno su un’esperienza vissuta insieme, per poi scoprire che anche eventi che ci sembravano chiaramente obiettivi hanno lasciato in noi ricordi molto diversi.

La memoria è qualcosa di strabiliante: contrariamente a quanto pensiamo, è un processo dinamico e soggettivo. I momenti del nostro passato vengono continuamente riscritti e reinterpretati dal nostro stato d’animo presente. In altre parole, se mi sento triste e sconsolato, avrò la sensazione di essere sempre stato triste e sconsolato. La mia mente rimuoverà i ricordi di serena allegria per farmi rivivere in continuazione la tristezza della mia condizione, confermando ciò che già credo. La mente non cerca la verità, ma la coerenza con quello che sentiamo emotivamente.

Da questo potremmo dedurre che Sartre e Camus, faticando a trovare significato nella loro esistenza, proiettassero quella lettura sul mondo? Forse. Ma il fatto interessante è un altro: quella che percepiamo come realtà obiettiva è in verità filtrata, distorta, riscritta dal nostro stato emotivo presente.

Se accettiamo questi due fatti – l’impossibilità di conoscere il significato della vita e l’inesistenza di una realtà univoca e oggettiva – dobbiamo ammettere che sono le nostre emozioni a dare forma alla nostra esistenza. E le emozioni possono essere comprese, gestite, la nostra mente addestrata.

Uno sguardo diverso dall’Oriente

Al centro delle filosofie e delle religioni dell’India esiste un concetto chiamato samsara: il ciclo continuo e illusorio dell’esistenza condizionata, fatto di nascite, morti e rinascite, accompagnato da sofferenza, desiderio, attaccamento e ignoranza. Il samsara è, in pratica, ciò che viviamo ogni giorno: l’altalena dei flussi emotivi, dei successi e dei fallimenti, dei desideri esauditi e di quelli negati, di ciò che vorremmo e di ciò che invece otteniamo.

Il samsara è come una ruota che ci travolge, ci intrappola, ci fa credere che la felicità sia uno stato effimero e illusorio, e che prima o poi arriverà, inevitabilmente, un altro lutto, un’altra sconfitta, un nuovo dolore. Così ci ritroviamo come su una barchetta di legno senza remi, in balia dei capricci del fiume, delle sue correnti, delle ripide discese e dei momenti (brevissimi) di agognata pace.

Attribuiamo la colpa del nostro essere alle circostanze esterne: a quel progetto fallito (non per colpa nostra, ovviamente), a quella persona che non ha saputo riconoscere il nostro valore, al fatto di essere nati nel momento sbagliato, nel posto sbagliato, nella famiglia sbagliata. E continuiamo a raccontarci storie su quanto la realtà sia ingiusta, cattiva e, in fondo, priva di senso (petit clin d’œil ai filosofi sopracitati).

Allora ci distraiamo con telefono, televisione, lavoro, alcol, sesso, sport, videogiochi – qualunque sia il nostro vizio preferito, purché ci aiuti a stare a galla, a evadere dal momento presente, a sentirci un po’ meno soli, un po’ meno persi, un po’ meno arrabbiati. E non trovando felicità in nessuna di queste cose, cominciamo a credere che sì, effettivamente questa vita non ha proprio senso e tanto vale lasciarsi andare. Ci disinteressiamo, ci sconnettiamo, ci lasciamo alla deriva. Rimaniamo intrappolati in questa condizione, nel samsara.

Il gioco della vita

Eppure, dalle stesse due considerazioni – l’impossibilità di conoscere il significato della vita e l’inesistenza di una realtà oggettiva – possiamo trarre una conclusione ben diversa: vedere la vita come un gioco.

Se la vita è un gioco, allora non è poi una cosa tanto seria, e possiamo viverla con leggerezza, libertà e curiosità. Così forse non concederemo tanto peso agli alti e bassi, e soprattutto non attribuiremo loro un’importanza capitale. I più saggi tra noi potranno persino imparare a osservarlo, questo stupendo gioco, con emotivo distacco.

Distacco emotivo non significa indifferenza. Significa mettersi nella posizione dell’osservatore, del saggio che guarda le acque turbolente del fiume con un sorriso lieto, senza permettere a quelle turbolenze di travolgerlo come farebbero con chi si agita disperato in mezzo alla corrente.

Spezzare la catena

Lasciamo che le emozioni governino la nostra vita perché non conosciamo altra via: è ciò che abbiamo sempre visto fare, ciò che ci è familiare. A volte, poi, siamo così legati alla nostra emotività da identificarci completamente con essa. Ci definiamo come “una persona triste” o usiamo la rabbia come motore per dare il meglio. Perché senza quella tristezza o quella rabbia non sapremmo nemmeno chi siamo, non ci riconosceremmo. Anche se viviamo queste emozioni come negative, permettiamo loro di dominare la nostra vita, perché è più facile scegliere ciò che conosciamo e ci ferisce, piuttosto che ciò che non conosciamo e ci spaventa.

Ma quando saremo in grado di osservare il gioco della vita, così com’è, senza proiettarci un significato né positivo né negativo, smetteremo finalmente di vivere come naufraghi in balia di un fiume impetuoso, e cominceremo ad abitare lo spazio di colui che, seduto sulla riva, osserva. Perché in fondo, non c’è mai stato nulla da vincere o da perdere, ma soltanto un momento presente da assaporare. E quando riusciremo ad allontanarci dalle emozioni, gustando quel momento con un sorriso, scopriremo che il gioco della vita è, da sempre, meravigliosamente libero.

25:41

Scienza e Buddismo

Il giardino di Albert 13.12.2014, 19:00

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