AI e dintorni

La fine del tangibile

Tra intelligenza artificiale e nostalgia del reale, un invito a tornare alle mani, alla natura, al rischio

  • Oggi, 14:00
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Di: Tommaso Giacopini 

Tutto ha una fine. L’abbiamo sentito dire un milione di volte. Eppure quando poi quella fine arriva sembra sempre sorprenderci, spaventarci. Non tanto perché la fine delle cose sia di per sé una cosa cattiva, ma perché siamo abituati a che le cose siano come sono, come siamo abituati, e affrontiamo il cambiamento con resistenza.

Eppure oggi siamo in una fase in cui le cose che finiscono sono davvero molte. Non credo sia più un eufemismo dire che stiamo osservando la fine del mondo conosciuto. Nuove tecnologie sconvolgono il mondo del lavoro, della comunicazione, delle relazioni, dell’apprendimento. E noi, che siamo abituati da millenni a che le cose vadano in un certo modo, a una determinata velocità, veniamo travolti da questi cambiamenti, senza che nessuno possa dire con certezza quali saranno gli esiti sociali di questo esperimento globale che stiamo vivendo come specie. Cosa comporta l’intelligenza artificale per l’essere umano?

La domanda è semplice, la risposta pressoché indefinibile.

Il prezzo del comfort

Un tempo mi dicevo che non avrei mai pronunciato lo stereotipo “le cose erano meglio una volta”, convinto che la vita, le emozioni, i sentimenti umani si mantenevano gli stessi, attraverso qualsiasi epoca storica o circostanza esterna. Oggi mi ricredo. E ciò che mi fa riconsiderare la questione è la comprensione che ci sono cose che obiettivamente ci fanno bene e cose che obiettivamente ci fanno male, perché non in linea con l’organismo “essere umano”. Una delle cose che ci fa male, per esempio, è il comfort oltre un certo livello. Il nostro corpo non è fatto per poltrire, né fisicamente né tantomeno a livello mentale, è fatto bensì per rispondere continuamente a stimoli ed eventi. È fatto per vivere, in poche parole, nella realtà della natura. Nel freddo umido degli inverni e nelle giornate secche e torride d’estate, nei momenti di tristezza e desolazione e nei momenti di trionfo, nella paura del pericolo e nell’euforia della caccia. La nostra esperienza di oggi è molto diversa. Benché gli avanzamenti della tecnologia degli ultimi decenni abbiano portato miglioramenti in termini di aspettativa di vita, hanno anche appiattito lo spettro dell’esperienza umana, rendendoci così delicati in termini di resilienza da ridurre grandemente la nostra capacità di affrontare e superare un evento traumatico, al punto da rifedinire persino il concetto stesso di trauma.

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Ciò che si tollerava e superava senza difficoltà fino a pochi anni fa, rischia oggi di diventare soggetto di lunghi percorsi di terapia. Esperti e ricercatori imputano all’uso sfrenato della tecnologia, e in particolare al suo impiego già da giovanissimi, la colpa di questa nuova delicatezza emotiva. Oggi direi che si possa parlare di epidemia a livello di numero di persone che ricorrono a medicamenti per combattere stati di ansia, senso di inadeguatezza, disforia, depressione e quant’altro. E questo numero di per sé già spaventoso non farà che crescere negli anni a venire. Questo è un chiaro dato che ci indica che come umanità stiamo, a un livello profondo, fallendo l’individuo e in particolar modo fallendo le nuove generazioni, e che le soluzioni adottate sono totalmente inefficaci, a prescindere da quello che potrebbero suggerire dati puramente numerici come longevità e stabilità socioeconomica.

Un pericoloso surrogato

Ma qual è il vero pericolo della tecnologia? Anche in questo la ricerca parla chiaro. Ci rende attenti del fatto che la tecnologia, e in particolar modo il sopravvento delle interazioni del mondo digitale su quello reale, rappresenta l’apoteosi del comfort. Se un semplice climatizzatore abitua il corpo a temperature sempre costanti e lo rende restio a sopportare freddo e caldo, il mondo digitale agisce direttamente sui nostri circuiti mentali ed emotivi abituandoli a non vivere in prima persona quelle emozioni che percepiremmo come negative, come delusioni, critiche e rifiuti.

Il mondo digitale diventa dunque il surrogato del mondo reale, un’imitazione fittizia in cui i sapori sono più dolci, i colori pastello, le emozioni abborbidite, le cadute ammortizzate. Ecco dunque che la persona assuefatta a questo surrogato, non appena si troverà ad affrontare una difficoltà o una critica nella sfera delle relazioni, del lavoro, o in qualsiasi ambito, va in totale smarrimento, si sente attaccata, punita, personalmente vittimizzata.

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Il ritorno al reale

Quale soluzione è dunque possibile? La soluzione è ritornare alle mani, al fare, alla natura. Ritagliarci dei momenti consapevoli di riconnessione col mondo reale, quello del tangibile, quello da cui e per cui siamo stati generati. Quello di prima, quello di sempre. Quello del cantiamo insieme anche se siamo stonati, del vediamoci alle otto in piazza, del vuoi venire con me al cinema e mentre te lo chiedo sudo freddo, quello del chi arriva primo a quell’albero vince. E cosa vince? Una risata, il cuore che batte, una pacca sulla spalla, un momento di gioia.

L’intelligenza artificiale, come ogni strumento, non è cattivo, ma la sua potenza richiede grande consapevolezza, presenza e connessione. Le macchine non fanno scelte, non hanno arbitrio (se non quello preimpostato dal programmatore), noi abbiamo invece questa enorme capacità e di conseguenza l’enorme responsabilità che da questa capacità deriva. Responsabilità non solo verso la nostra vita come individui, ma la nostra specie tutta, per non lasciare che tutto ciò di meraviglioso l’essere umano ha creato nei millenni venga perduto.

Ogni fine è un inizio

Termino tuttavia ricordando che, in fondo, una fine è soltanto una fine e come ogni fine racchiude nel suo intimo il germoglio di un nuovo inizio. Che siamo testimoni della fine del mondo conosciuto è a questo punto, direi, innegabile, ma ciò che questo comporterà è, come anticipatamente detto, pressoché impossibile definirlo. E ora che ho terminato di scrivere questo articolo allo schermo di un computer, me ne esco a passeggiare nel bosco e poi chissà, magari metto i piedi nudi nell’acqua del ruscello.

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