Xi Jinping: «Una volta si diceva che era raro vivere fino a 70 anni, ora dicono che a 70 anni sei ancora un bambino.»
Vladimir Putin: «Tra qualche decennio con il continuo sviluppo delle biotecnologie gli organi umani saranno sempre più trapiantati, permettendoci di rimanere sempre più giovani e forse anche di raggiungere l’immortalità. Alcuni prevedono che potrebbe essere possibile entro questo secolo vivere fino a 150 anni.»
Risate di Xi e di Kim Jong Un
È il dialogo, catturato da un microfono aperto, fra Xi Jinping e Vladimir Putin durante la recente parata militare di Pechino che ha celebrato l’80° anniversario della vittoria sul Giappone e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Al di là delle risate suscitate dalle parole di Putin nel presidente cinese e in quello della Corea del nord Kim Jong Un, anch’egli presente, il tema dell’allungamento della vita – anche a oltranza – e, dunque, dell’invecchiamento e del desiderio di spostare sempre più avanti il destino di tutti gli esseri viventi (che è, facciamocene una ragione, quello di morire) si trova sempre più al centro dell’interesse di molti. Da quando ha preso coscienza della propria caducità, l’uomo ha sempre cercato di sfuggire alla morte o, almeno, di liberarsi da questa ossessione e di poter prolungare la propria vita.
Ed è un fatto che, rispetto a cento anni fa, viviamo più a lungo e generalmente più sani grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, tanto che l’invecchiamento della popolazione è diventato un fenomeno demografico globale e in rapida crescita. Non a caso in questi ultimi anni si assiste a un fiorire di convegni, conferenze, ricerche sull’invecchiamento e la longevità. Quest’ultima, al centro di grande attenzione e dibattito, nasce certo da bisogni reali – prevenzione delle malattie croniche, invecchiamento sano, aumento della qualità di vita – ma è diventata anche un grosso business, a tratti insidioso.

La longevità si costruisce durante tutta la vita
Il Quotidiano 04.06.2025, 19:00
«Solo nell’ultimo decennio sono apparsi più di trecentomila articoli sull’invecchiamento e l’estensione della vita, e oltre settecento aziende emergenti hanno investito complessivamente decine di miliardi di dollari nell’impresa». È quanto leggiamo nel testo di presentazione di Perché moriamo. La nuova scienza dell’invecchiamento e la ricerca dell’immortalità, l’ultimo libro di Venki Ramakrishnan, Nobel per la chimica nel 2009 per la scoperta della struttura del ribosoma, il “cuore pulsante” della vita cellulare, responsabile dell’espressione dei geni. Ramakrishnan ha dedicato tutta la sua vita a studiare i processi cellulari – e dunque i meccanismi della vita – e a cercare di capire perché invecchiamo e soprattutto perché moriamo.
Tutti invecchiamo, fin dai primi istanti di vita, eppure il mito della sconfitta della morte fa parte delle nostre culture da sempre. E da secoli l’umanità investe enormi energie nel tentativo di comprendere i meccanismi più profondi dell’invecchiamento, sfruttando di volta in volta gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. È a questo lungo percorso di ricerca che Venki Ramakrishnan dedica il suo ultimo, denso ma godibile saggio, nel quale passa in rassegna le più recenti e significative scoperte scientifiche sull’invecchiamento e offre una serie di riflessioni sul significato della morte e, in ultima analisi, sul nostro desiderio di sottrarci ad essa.
Con uno stile chiaro e accessibile, arricchito da metafore e da continui rimandi alla vita quotidiana, e anche da una sottile ironia, Ramakrishnan accompagna il lettore dai meccanismi cellulari fino a un terreno più ampio, dove biologia, etica e filosofia si intrecciano in una riflessione condivisa.
Proprio perché la biologia ha fatto decisivi passi avanti nello studio delle cause dell’invecchiamento e, per la prima volta, intravediamo la possibilità di contrastarne gli effetti, il tema ha suscitato enorme interesse ma anche un’ondata di clamore e affermazioni pseudoscientifiche. È proprio questo il motivo per cui l’autore ha ritenuto «importante offrire un libro che affrontasse l’argomento in modo realistico e documentato».

E così, con chiarezza e rigore, il saggio illustra non solo i meccanismi che portano all’invecchiamento e alla morte ma anche i campi di ricerca più importanti e promettenti per ritardare questo epilogo: come i processi alla base della restrizione calorica; i fattori che differiscono fra il sangue giovane e quello vecchio; l’individuazione delle cellule senescenti, che si accumulano con l’età e causano infiammazione; la riprogrammazione delle cellule, in modo da riportarle a uno stadio precedente della loro storia. Ma, precisa lo scienziato, alcuni aspetti della biologia dell’invecchiamento continuano a essere fraintesi dal grande pubblico, in particolare quelli, appunto, legati alla longevità e all’idea di un prolungamento indefinito della vita. In teoria, non esistono leggi naturali che impediscano di vivere molto più a lungo di quanto accada oggi, sottolinea Venki Ramakrishnan, ma la prospettiva di una vita estremamente estesa – o addirittura di una “giovinezza eterna” – resta ancora lontanissima, ostacolata da limiti scientifici e biologici significativi.
Inoltre, aggiunge ancora lo scienziato indiano, è fondamentale distinguere la ricerca seria dalla pseudo-scienza che circola attorno ai concetti di “anti-aging” o “reversing aging”: spesso si tratta di affermazioni prive di basi solide, sostenute da un linguaggio che sembra scientifico ma non lo è. La verità, scrive, è che la nostra paura di invecchiare e morire ci rende particolarmente vulnerabili a promesse illusorie che dicono di poterci proteggere da ciò che più temiamo. Come l’invecchiamento, appunto, e soprattutto la morte.
Quello che resta - Ho deciso di diventare immortale
Superalbum 09.02.2019, 20:40
Già, ma perché moriamo?
Conosciamo molti dei meccanismi fisici che conducono alla morte, ma questo campo di ricerca continua a riservare sorprese e a rivelare paradossi inattesi come spiega lo scienziato indiano. Per esempio, osservando i processi di riproduzione cellulare verrebbe spontaneo pensare che le cellule possano duplicarsi all’infinito. In realtà non è così. Il limite è rappresentato dai telomeri, strutture proteiche collocate alle estremità dei cromosomi. A ogni divisione cellulare i telomeri si accorciano leggermente, circa di un cinquantesimo, e svolgono un ruolo cruciale nel mantenere corretta la replicazione. In altri termini: dopo un certo numero di duplicazioni, i telomeri si consumano e la cellula non è più in grado di riprodursi. Questo processo, ripetuto su scala più ampia, conduce progressivamente all’invecchiamento e, infine, alla morte dell’organismo.
Morte che, come sottolinea Ramakrishnan, porta con sé anche paradossi apparenti ma al contempo sorprendenti: quando siamo vivi e in salute, milioni di cellule all’interno del nostro corpo muoiono continuamente senza che noi ce ne accorgiamo. Al contrario, quando smettiamo di respirare, perdiamo coscienza e sopraggiunge la morte, molti organi restano ancora vitali per un certo tempo.
Ecco perché secondo lo scienziato indiano è essenziale distinguere tra la morte delle cellule e la morte dell’individuo. Quest’ultima si verifica quando «un sottosistema critico – come il nucleo del cervello – collassa in maniera irreversibile: in quel momento l’organismo non è più in grado di funzionare come entità unica e coerente, anche se cellule e organi continuano temporaneamente a vivere».
Un altro paradosso affascinante che Ramakrishnan mette in evidenza riguarda il nostro rapporto con l’evoluzione: noi in realtà non saremmo programmati per morire, afferma, ma la selezione naturale ha sempre privilegiato la capacità di riprodursi rispetto alla longevità. L’evoluzione non è interessata a quanto a lungo viviamo, bensì alla trasmissione dei nostri geni – ciò che in biologia evolutiva si definisce fitness. I tratti che favoriscono la sopravvivenza nell’infanzia e la riproduzione vengono dunque selezionati; ed è proprio il rovescio della medaglia di questi stessi tratti a determinare, più avanti nella vita, l’invecchiamento e il declino.

Ma, come spiega ancora Ramakrishnan in un’intervista a Adnkrons del giugno del 2024, «Poiché discendiamo ininterrottamente, da diversi miliardi di anni, dalle cellule viventi attraverso la nostra linea germinale, noi come individui moriamo, vale a dire che i nostri corpi muoiono, ma il potenziale che permette alla vita stessa di continuare persiste. In questo senso la vita è immortale, anche se l’individuo non lo è».
Eppure, non vogliamo morire, come testimonia il mito della sconfitta della morte, presente in ogni cultura fin dall’antichità. Ramakrishnan esplora questo desiderio universale analizzandone anche le implicazioni etiche e sociali. Un prolungamento indefinito dell’esistenza, con il conseguente aumento della popolazione anziana, avrebbe ripercussioni profonde sull’organizzazione sociale, costringendoci a ripensare stili di vita, diritti e forme di convivenza. Ma se davvero diventasse possibile vivere molto più a lungo, chi avrebbe accesso a questo privilegio? Ramakrishnan non offre risposte semplici: ci invita piuttosto a riflettere, prima che siano la tecnologia e il mercato a decidere per noi.
Ecco perché lo studioso ci invita ad adottare un approccio realistico: vivere meglio significa innanzitutto prendersi cura di sé, coltivando stili di vita salutari, dormendo a sufficienza e seguendo un’alimentazione equilibrata, così da ridurre il rischio delle malattie legate all’età. Più che inseguire l’illusione di un’esistenza infinita, il compito autentico della scienza è capire come rendere la vita che abbiamo più dignitosa, significativa e libera dalla sofferenza.
Questo vuol dire anche evitare di considerare l’invecchiamento una malattia e la morte un errore o una sconfitta. Se da secoli i monaci tibetani – e non solo loro – ci ricordano che la morte è continuità, un passaggio verso un’altra dimensione, è uno scienziato, il francese Antoine-Laurent Lavoisier, che nel Settecento ce lo ha dimostrato, con la celebre legge di conservazione della massa: Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.