Musica

Bob Dylan

Come in un viaggio senza fine

  • 23 May 2021, 13:43
  • 14 September 2023, 07:27
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Bob Dylan

  • Keystone
Di: Fabrizio Coli

“Nel momento in cui cerchi di afferrare e tenere con te Dylan, lui non è più dove era. È come una fiamma: se cerchi di tenerlo in mano ti brucerai di sicuro. La vita di Dylan, fatta di cambiamenti, sparizioni e trasformazioni costanti, ti fa desiderare di prenderlo, per trascinarlo giù e inchiodarlo. Ed è questo il motivo per cui i suoi fan sono così ossessivi, così desiderosi di trovare da lui la verità, l'assolutezza e le risposte. Pensate che Dylan non provvederà mai a questo e sarete solamente frustrati… Dylan è difficile e misterioso, sfuggente e frustrante, e questo ti fa solo identificare con lui ancora di più mentre elude l'identità”.

Il regista Todd Haynes sa di che parla. Nel 2007 ha diretto I’m Not There - Io non sono qui, dalle cui note stampa è tratta la citazione. Il suo è stato un modo sensato per avvicinarsi a Bob Dylan, evocando non uno ma una serie di personaggi che in qualche modo sono incarnazioni del viaggio personale dell’artista. Dichiaratamente ispirato alle “molte vite” di Dylan, il film ne ha colto l’essenza di figura non data una volta e per sempre. Certo, in questo quadro sfuggente ci sono anche delle certezze. Considerato uno degli artisti più importanti nell’ambito della cosiddetta musica leggera, per usare un termine generico e orribile, Dylan non solo è diventato il cantautore per eccellenza ma di quella musica ha travalicato i confini. Le sue parole – premiate addirittura col Nobel per la letteratura – hanno aperto coscienze. Il suo impatto sulla cultura di massa è profondo e duraturo. Ma sempre si è ritratto da catalogazioni che ogni volta sembravano definitive. I Contain Multitudes, recita citando Walt Whitman il titolo di un suo recente brano. Proprio così. C’è un mondo dentro Bob Dylan, in costante mutamento anche adesso che compie 80 anni, una sessantina dei quali passati sulle scene.

La protesta, la svolta elettrica, l’incidente di moto, la conversione, i tour infiniti, i premi, gli album che non ha mai smesso di sfornare fino a oggi… Nell’enorme complessità di Dylan non è affatto facile muoversi. Anni, luoghi e fatti possono però di quando in quando essere utili punti di riferimento, molliche di pane che aiutano nella traversata di territori ormai tanto esplorati, quanto ancora non mappati fino in fondo. E allora proviamo a mettere giù alcune di queste briciole, segniamo dei puntini sulla carta, senza però la pretesa di unirli una volta per tutte. Haynes ce lo sconsiglia e probabilmente facciamo bene a dargli retta. Di Robert Allen Zimmerman di sicuro sappiamo che è nato nella comunità ebraica di Duluth, USA, in quel fatidico 24 maggio del 1941, e che poi crebbe a Hibbing, sempre nel gelido stato del Minnesota. Sappiamo della sua giovinezza, passata ascoltando la radio e dell’influenza su di lui di eroi del rock’n’roll come Little Richard. Sappiamo della voce di Odetta, che cantava “cose profonde” e gli instillava l’amore per il folk. Sappiamo di Minneapolis, dell’università che non frequenterà e dell’impatto che ha su di lui una figura in particolare, quella del radicale folksinger Woody Guthrie, l’uomo la cui chitarra “uccide i fascisti”, il cantore delle odissee di hobos e diseredati che percorrono l’America su vagoni merci. Fin qui tutto chiaro, sembra.

Ma si ha l’impressione che già fin da subito ci sia in Dylan qualcosa che lo porta sempre a voler essere qualcun altro. Forse non è casuale la costante scelta di pseudonimi che lo accompagna negli anni giovanili, fino a cambiarsi definitivamente il nome in Bob Dylan, un gioco di maschere che non verrà mai del tutto abbandonato. E forse non è neppure un caso che si chiami Alias il personaggio che interpreterà in uno dei suoi flirt con il cinema, in quel Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah (1973) per cui compose la colonna sonora e l’immortale Knockin’ On Heaven’s Door. Fin da principio ci sono figure che lo appassionano e che imita, talvolta ossessivamente, prima di passare ad altro. Sappiamo che da ragazzo ha cercato di darsi un’aria alla Brando o alla James Dean. Ma quando scopre Guthrie ne viene letteralmente folgorato, tanto da spingersi sulla costa est per visitarlo in ospedale, in un epico viaggio in autostop degno di Kerouac. Inevitabile che una volta laggiù si stabilisca nel centro di tutto, nel cuore bohemien di New York, il Greenwich Village. Joan Baez, Pete Seeger, Dave Van Ronk, Ramblin’ Jack Elliot, Allen Ginsberg… in quel ribollente calderone fa incontri, assorbe, partecipa e si fa notare. Anche da personalità come il produttore John Hammond che lo porta alla Columbia, alla faccia dei dirigenti dell’etichetta che ritenevano pura follia investire su un ragazzo sconosciuto e che per di più cantava malissimo.

C’è un qualcosa di non completamente spiegabile, come un dono o una qualità misteriosa, nel fatto che fra tutti proprio lui, poco più che ventenne, diventi l’eletto, la “voce di una generazione”, definizione da cui presto Dylan farà di tutto per distanziarsi come un gatto sorpreso da uno scroscio di pioggia. È che lui più di tutti sa trovare le parole. Le parole giuste. Le canta con quella vociaccia che David Bowie definirà di sabbia e di colla ma poco importa, anzi nulla. L’effetto è tellurico. Dylan nel periodo della sua prima venuta sembra un’antenna in grado di captare messaggi da chissà dove e di ritrasmetterli al mondo. L’amico fotografo Elliott Landy minimizza: “ha solo fiutato l’aria che tirava, cosa stava succedendo e l’ha messo in parole. La sua più grande fortuna è stata quella di essere un maestro del linguaggio”. Secondo la cantante Mavis Staples invece era semplicemente “frutto di ispirazione divina”. Nel clima incandescente delle lotte per i diritti civili dei neri, Dylan è lì. È lì a cantare nei raduni, è lì al Lincoln Memorial di Washington quando Martin Luther King pronuncia il celeberrimo “I Have a Dream”. Per sua stessa ammissione, Dylan non era una persona particolarmente politica. Ma Blowin’ in the Wind e le canzoni dei primi anni Sessanta sembrano fatte per diventare inni. Il movimento per i diritti civili e quello folk hanno trovato in lui la voce da ascoltare, l’artista di riferimento.

Ecco qua che la storia appena cominciata sembra già aver raggiunto il suo culmine. Non ci si aspetta altro se non che Dylan continui ad essere l’eroe della protesta. Ma non andrà così. L’eresia elettrica del Festival Folk di Newport nel 1965 è un evento immancabilmente citato nella “historia dylaniana”. È la reazione di un amante tradito quella del pubblico che lo fischia e gli grida venduto quando si presenta accompagnato da una band e dallo squassante volume degli amplificatori sullo stesso palco dove pochi anni prima era stato incoronato come il cantautore dell’impegno. Si è detto che lì, da Messia del folk Dylan si sia trasformato nel Giuda del rock’n’roll. Lui però se ne frega dei “buu!”, di quello che ci si aspetta da lui e continua a scrivere la sua storia. La sua e quella di molti altri in realtà, perché album come Highway 61 Revisited o Blonde on Blonde sono destinati a cambiare profondamente tutta la scena musicale. Forse, molta della musica venuta dopo senza di lui non ci sarebbe stata o non sarebbe stata la stessa. “I Asked Bobby Dylan, I Asked the Beatles” canteranno gli Who... “Come Elvis ha liberato i nostri corpi, Bob ha liberato le nostre menti”, dirà Bruce Springsteen nel 1988, introducendo Dylan nella Rock and Roll Hall of Fame. “La prima volta che l’ho sentito ero in macchina con mia madre, la radio era sintonizzata sulla WMCA ed è arrivato quel colpo di rullante che suonava come qualcuno che avesse aperto a calci la porta della tua mente: Like A Rolling Stone”.

L’essere elusivo e inafferrabile, il mutare pelle è una delle poche costanti di Dylan. Lo si è visto durante i primi anni di carriera e lo si vede anche una volta riemerso dall’incidente in moto del 1966 e dall’isolamento con cui si sottrae per qualche tempo ai riflettori dedicandosi alla famiglia (intanto si è sposato per la prima volta e i figli cominciano ad arrivare). Lo si lascia come rockstar e pochi anni più tardi eccolo che già sonda territori country con Nashville Skyline (1969), per dire. Poco importano gli alterni successi di critica o pubblico che contraddistinguono tutta la sua smisurata produzione fino a oggi. Dylan non si è mai conformato a niente. La tensione al cambiamento è costante. Lo è nella musica, dove nel tempo si sono fusi appunto folk e rock’n’roll, country e gospel, molteplici stili e accenti, un viaggio che sembra non aver mai fine che ha portato a tante collaborazioni e dove anche in tempi recenti non sono mancate proposte spiazzanti, perfino per lui, dalla rivisitazione di Sinatra in Shadows in the Night (2015) all’operazione benefica natalizia di Christmas in the Heart (2009). Tesa al mutamento è anche la sua personale ricerca spirituale, che tra la fine dei Settanta e l’inizio degli anni Ottanta lo ha visto abbracciare il cristianesimo. Ma quella della perenne esplorazione è un’attitudine che non fa sconti, che spesso non lo rende neppure amabile per i suoi fan e non risparmia neanche i brani storici, quelle canzoni che tutti vogliono ascoltare così come le hanno sentite la prima volta. Chi ha assistito a qualche tappa del Never Ending Tour, l’infinita serie di esibizioni live che impegna Dylan da oltre una trentina d’anni, lo sa bene. Si rischia di non riconoscere neppure i brani più celebri tanto sono cambiati e riarrangiati, e di non capirne neppure le parole.

Quelle parole, distillate nelle oltre 600 canzoni di un catalogo recentemente venduto alla Universal per 300 milioni di dollari, hanno fatto la storia. Dai caustici talking blues degli esordi, dal “finger-pointing” degli anni della protesta, anche i testi si sono arricchiti sempre più, inglobando echi di Rimbaud, di Blake, dei beatnik, immagini bibliche… un mondo di suggestioni e riferimenti anche criptici che hanno il potere di far vibrare corde personali e universali. Per quelle parole, per quelle canzoni tanti riconoscimenti gli sono stati conferiti. Non solo quelli di categoria, come i Grammy o l’Oscar vinto nel 2001 per la canzone Things Have Changed dal film Wonder Boys, ma anche premi come la Medaglia presidenziale della libertà statunitense o l’iberico Principe delle Asturie. Fino al Pulitzer e al celeberrimo Nobel per la letteratura che nel 2016 ha tenuto banco per il codazzo di polemiche (premiare un cantautore?) e per il comportamento del premiato. Quasi una telenovela: Dylan che per un po’ non si fa sentire, poi diserta la cerimonia ufficiale a cui in sua vece invia un’emozionatissima Patti Smith, ma infine, più tardi va a Stoccolma dove in un evento lontano dai riflettori – tanto per non smentire la sua avversione alle attenzioni mediatiche – gli viene consegnata la preziosa medaglia.

Proprio l’amica Patti Smith era impegnata in questi giorni a festeggiare l’ottantesimo compleanno di Dylan con dei concerti a New York, ma anche nel resto del mondo non mancano gli omaggi a sottolineare la ricorrenza, fra questi anche lo speciale MusicaViva in onda il 24 maggio alle 20 su RSI Rete Uno. Ma lui, il protagonista, che progetti ha adesso? Procedono i lavori per il Bob Dylan Center di Tulsa, Oklahoma, che conterrà il suo sterminato archivio e che dovrebbe aprire nel 2022. Ci sono voci di diversi film che lo riguardano, fra i quali anche un biopic diretto da James Mangold (che già ha firmato Walk The Line su altro grande amico di Dylan, Johnny Cash). Anche in tempi di pandemia poi, la musica non si è fermata. L’anno scorso Dylan ha pubblicato il suo 39. album in studio, Rough and Rowdy Ways, che è stato accolto molto bene. Vero, capire ciò che gli passa per la mente è impossibile e quindi potrebbe anche decidere di chiuderla qui e godersi la pensione. Ma per gli stessi motivi è anche lecito pensare che, nonostante l’artrite gli impedisca ormai di suonare la chitarra, appena possibile Dylan continui a portare avanti il suo leggendario Never Ending Tour, il cui nome sembra riassumere il suo stesso percorso esistenziale. Chissà, magari prima o poi ripasserà anche dalle nostre parti. In Ticino è già stato tre volte, sempre a Locarno, nel 2019, nel 2015 e nel 1987. Quella prima sera in Piazza Grande è stata memorabile pure per lui, che l’ha espressamente citata in Chronicles Vol. 1. La voce non gli esce e si ritrova muto di fronte a settemila persone. Panico. Ma poi la voce – la parola – ritorna e tutto cambia, scrive nell’autobiografia, non solo per lo spazio del concerto. Forse chi c’era, senza saperlo, ha assistito a uno di quei momenti di enigmatica trasformazione di cui è piena la vita di Bob Dylan. Una vita che ne contiene moltitudini.

Gli 80 anni di Bob Dylan

Telegiornale 24.05.2021, 12:30

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