Letteratura

Conrad Ferdinand Meyer

Il vino pregiatissimo del “povero Corradino”

  • 10 October 2023, 06:57
  • LETTERATURA
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Di: Mattia Mantovani

Come altre grandi coppie, anche la coppia per eccellenza della letteratura svizzera tedesca dell’Ottocento, Gottfried Keller e Conrad Ferdinand Meyer (il secolo dopo sarà la volta di Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt), è definibile più per sottrazione che per addizione, nel senso che uno dei due spiega l’altro, e viceversa. Ma nel loro caso può essere utile anche un paragone enologico, se così lo si può definire.

I cosiddetti “classici”, ha infatti osservato con simpatica ironia Robert Walser proprio parlando di un celebre antenato come Gottfried Keller, assomigliano spesso a quelle bottiglie di vino di marca pregiatissima che si tengono nella parte buona della cantina e si spolverano, si stappano e si degustano soltanto in particolari occasioni. Può tuttavia capitare che le occasioni siano talmente rare che alla fine talune bottiglie rimangono in cantina: si sa che ci sono e che il loro vino è particolarmente pregiato, però non le si stappa mai.

La pregiatissima marca “Conrad Ferdinand Meyer”, non meno rinomata ma con un retrogusto piuttosto differente rispetto alla marca “Gottfried Keller”, ha conosciuto pressappoco il medesimo destino. E’ risaputo infatti che lo zurighese Meyer, nato l’11 ottobre 1825, è una gloria letteraria nazionale e fa parte insieme a Keller e Gotthelf della “triade” dei classici dell’Ottocento, tutti ne hanno sentito parlare, eppure è davvero esiguo il numero di coloro che lo hanno gustato e assaporato. Poco spendibile, a differenza di Keller, nei discorsi ufficiali e nelle grandi ricorrenze, Meyer sembra insomma appartenere a un passato lontanissimo, perché la sua narrativa è costantemente tesa alla rievocazione di vicende storiche che già ai tempi dello stesso Meyer stavano trascolorando nella dimensione del mito e della leggenda. Si tratta quindi di una marca che sembrerebbe meglio conservare in cantina, limitandosi a sapere che c’è e all’occorrenza la si potrebbe gustare. Ma il desiderio di creare una simile occorrenza è piuttosto debole, anche per ricordi scolastici poco incoraggianti: presso gli studenti germanofoni, la sua peraltro straordinaria lirica “La fontana di Roma”, uno dei vertici della lirica tedesca insieme a “Metà della vita” di Hölderlin, all’“Elegia di Marienbad” di Goethe e “La campana” di Schiller, è oggetto del medesimo amore che gli studenti italofoni di ieri e oggi nutrono per Alessandro Manzoni.

E invece varrebbe la pena di scendere in cantina e stappare le bottiglie, perché Conrad Ferdinand Meyer, non meno di Gottfried Keller, per quanto all’interno di una prospettiva differente, è stato uno scrittore dal talento sopraffino, che nelle vicende storiche è riuscito a cogliere i motivi di fondo dell’eterna tragicommedia umana. La sua opera, nel complesso, si configura inoltre come una sorta di autobiografia indiretta, nel senso che Meyer, parlando di altre persone e altre epoche, ha parlato in realtà di se stesso, della propria vita, delle proprie scissioni interiori e delle proprie debolezze, ma nello stesso tempo ha gettato uno scandaglio nelle profondità più abissali dell’agire umano, in quel cuore di tenebra dove non è più possibile distinguere tra destino e carattere, ragione e sentimento, esigenze della morale e necessità della politica, sincero anelito umanitario e torbida volontà di potenza.

Nelle opere di Meyer -che si era ironicamente definito un “probo svizzero”, sapendo di non esserlo affatto- ci si trova al cospetto di una pressoché totale identificazione tra autore e personaggio, tanto più significativa e ricca di fascino nella misura in cui i personaggi (in particolare Jürg Jenatsch nell’omonimo romanzo di ambientazione grigionese, Tommaso Becket ne “Il santo” e Ulrich von Hutten nel ciclo poetico “Gli ultimi giorni di Hutten”, al quale fa da sfondo l’Isola di Ufenau sul Lago di Zurigo) appartengono a un passato molto lontano. Che però rivive nella reinvenzione letteraria, vicinissimo e palpitante, screziato di echi e rimandi, come nella straordinaria novella “L’amuleto”, assoluto capolavoro di perfezione stilistica.

Ma le similitudini/differenze con Keller non finiscono qui. Se Keller diventa scrittore intorno ai trent’anni, in occasione delle rivoluzioni europee del 1848 e della nascita della Svizzera moderna (il paese delle utopie mancate, la definirà poi il patriota critico Max Frisch), Meyer scopre la vocazione poetica in età ancora più tarda, a quarantacinque anni, nel 1870, in occasione della guerra franco-prussiana. In quel periodo, Meyer frequentava abitualmente un’aristocratica dimora di campagna sul Lago di Zurigo, di proprietà del rifugiato tedesco François Wille, rivoluzionario del 1848. Allo scoppio del conflitto, l’ex rivoluzionario Wille si schierò apertamente a favore della Germania di Bismarck e comunicò la propria passione al più o meno ignaro Meyer, il quale -così narra la leggenda- scrisse di getto la poesia “Il fabbro tedesco”, una composizione in distici non propriamente eccelsa. La poesia ebbe però una straordinaria risonanza, fu stampata da tutte le gazzette germaniche e venne perfino recitata, musicata e cantata. Da quel momento, lo sconosciuto Meyer divenne un poeta tedesco, e negli anni successivi si fece perdonare i pessimi versi che gli erano valsi quella fama con versi di ben altra levatura, che invece gli garantiscono una posizione di assoluta rilevanza nella lirica di tutti i tempi.

Anche per il resto, sono le diversità a definire le similitudini. Gioviale e bonario Meyer, di una bonarietà perfino ingenua, chiuso e burbero Keller (i suoi nemici e avversari politici, a Zurigo, lo chiamavano “il vecchio brontolone”); il primo attratto dai viaggi e dalla scoperta di altri mondi e altre culture, soprattutto quella italiana (conosciuta per il tramite de “La civiltà del Rinascimento in Italia” di Jacob Burckhardt), mentre il secondo ha sempre considerato Zurigo come l’unico sfondo realmente imprescindibile per la creazione e reinvenzione artistica.

Infine, a differenza dello scettico e agnostico Keller, e forse a causa della fragilità psichica e della rigidissima educazione materna improntata all’idea del peccato, Meyer ha cercato nei fenomeni della vita un tratto simbolico in grado di rimandare a una dimensione trascendente. Si tratta di una goethiana “discesa alle Madri” che è possibile rinvenire soprattutto nella produzione lirica, dove si assiste, come nel caso della già ricordata “Fontana di Roma”, al tentativo di trovare una pacificazione degli opposti, l’eterno divenire e l’eterna stasi. Gli ultimi versi, in particolare, con la meravigliosa descrizione dei tre bacini sovrapposti della fontana, esprimono il nucleo misterioso e inattingibile della vita secondo Meyer: «Va alto il getto e di sé colma / cadendo, la marmorea conca, / che si fa velo e poi trabocca / nel fondo di una nuova coppa / e questa ancora sovrabbonda / e versa a un’altra la sua onda; / e ognuna prende e ognuna dà / e scorre e sta».

La lirica di Meyer (che nelle cerchie letterarie zurighesi, dove evidentemente non mancavano professorini invidiosi e maldestri buontemponi, era conosciuto come “il povero Corradino”) si muove sempre sul confine e sulla linea d’ombra del disagio esistenziale e della sofferenza psichica. Lo stesso Meyer, del resto, nella poesia “Sul Canal Grande”, aveva parlato della vita e dell’arte come un «breve e piccolo tratto» in mezzo alle tenebre, una provvisoria e precaria dilazione prima del «mormorio incomprensibile». Così come il suo modello riconosciuto Hölderlin aveva chiesto alle Parche «un’estate sola, / e un solo autunno, perché maturi il canto / poi muoia, e volentieri, del dolce / gioco sazio, il cuore mio», dando il benvenuto alla «quiete delle ombre», allo stesso modo Meyer, parlando del «breve e piccolo tratto», intendeva naturalmente la propria vita e la propria arte, nell’oscura e insieme lucidissima consapevolezza che le tenebre della follia e della depressione prima o poi lo avrebbero definitivamente inghiottito. «Sarò felice, quand’anche la mia cetra / laggiù non mi accompagni; vissi / una volta, come gli Dei, e tanto basta»: le parole dell’invocazione di Hölderlin valgono anche per Meyer, la sua vita e il suo destino di poeta.

Il “povero Corradino”, poeta sensibilissimo e narratore di incomparabile talento (forse il più grande di sempre nella Svizzera tedesca, per qualità di scrittura), è morto il 28 novembre 1898, a 73 anni, nella clinica per malattie mentali di Königsfelden, nel Cantone di Argovia, dopo un lungo ricovero e quasi un decennio di buio spirituale. Qualche mese prima di morire, si era fatto leggere da un amico una sua poesia e infine, dopo un prolungato silenzio, aveva esclamato: «E’ vero, mi pare che sia stato io ad averla scritta, ma molto, molto tempo fa. Poi si è alzata una tromba marina, e i secoli sono passati come un uragano».

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