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Come The Walking Dead ha resuscitato gli zombi

Robert Kirkman e il fumetto che ha generato uno dei più imponenti fenomeni mediatici dell’ultimo quarto di secolo, tra videogame e serie TV (l’ultima è “The Walking Dead: Daryl Dixon”)

  • Oggi, 11:28
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The Walking Dead

  • Charlie Adlard
Di: Michele R. Serra 

Tutto può succedere, ma niente spiegazioni, per carità. Robert Kirkman oggi è milionario perché, all’inizio del ventunesimo secolo, ha capito la regola fondamentale del genere più amato del ventunesimo secolo, quello post-apocalittico. Una regola semplice: mai rivelare le origini della catastrofe. L’ha applicata a quello che oggi è il suo racconto più noto, che riassume così: «Credo sia una storia realistica, in cui la gente fa cose di tutti i giorni, quasi normali. Ogni spiegazione farebbe scivolare il racconto nella fantascienza, e distruggerebbe quel senso di normalità». Tutto bene, il riassunto è corretto, non fosse che The Walking Dead parla di zombi. E di una Terra infestata di morti viventi, di sopravvivenza al limite delle capacità umane, di uccidere o morire. Eppure quella sua descrizione minima rimane assolutamente pertinente.

Prima di ogni discussione, però, è il caso di ripercorrere la storia di quello che è stato uno dei più imponenti fenomeni mediatici nati dal fumetto nell’ultimo quarto di secolo, e che ancora oggi continua a macinare puntate televisive, a colpi di spin-off. L’ultimo arrivato in italiano è The Walking Dead: Daryl Dixon, cominciata ai primi di giugno. Daryl Dixon è uno dei tre spin-off arrivati doo la chiusura della serie principale, undici stagioni e 177 episodi: abbiamo avuto prima The Walking Dead: Dead City, poi The Walking Dead: Daryl Dixon e poi ancora the Walking Dead: The Ones Who Live. Però in italiano le stanno pubblicando in ordine inverso, quindi prima ci siam beccati The Ones Who Live, ora abbiamo Daryl Dixon e poi uscirà Dead City (che originariamente è del 2023). Misteri del doppiaggio e della distribuzione, ma importa poco. Il punto è che la storia di The Walking Dead non sembra voler finire. Vediamo com’è iniziata, riavvolgendo il nastro, se perdonate la metafora ormai fuori dal tempo.

Nel 2003 Kirkman è un giovane sceneggiatore, lavora in tandem con l’amico cartoonist Tony Moore. Insieme hanno prodotto Battle Pope: dal titolo si può già intuire il livello di demenzialità della loro prima opera capace di attirare l’attenzione dei lettori. Comunque. Non un grande successo, ma abbastanza per convincere i due autori che il fumetto può diventare lavoro vero. Così propongono una nuova serie alla Image Comics, casa editrice indipendente che ai tempi non navigava certo in acque tranquille, passati i fasti degli anni Novanta. Il primo concept si chiama Dead Planet, roba decisamente fantascientifica. L’editore è diffidente, anche perché il ritorno in grande stile degli zombi non è ancora un fenomeno acclarato: 28 giorni dopo, Manuale per sopravvivere agli zombi, L’alba dei morti dementi e un sacco di altre storie sono ancora in attesa di esplodere davanti al grande pubblico. Solo i videogame avevano già compiutamente riscoperto il filone, da Resident Evil in giù. Ma del resto si sa, quelli son sempre avanti.

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Il primo numero di The Walking Dead, edizioni Image Comics

Una riscrittura completa trasforma Dead Planet in The Walking Dead, e il primo numero va in stampa qualche mese dopo. In bianco e nero. Per rendere omaggio all’originale Notte dei morti viventi, dice qualcuno; per spendere qualche dollaro in meno, malignano altri. Negli anni successivi nessun risparmio sarà più necessario, ma questo ancora nessuno lo sa.

Moore viene presto rimosso dall’incarico di disegnatore unico della serie e rimpiazzato da Charlie Adlard, che ha uno stile diametralmente opposto al suo. Ufficialmente si tratta di decisione presa di comune accordo con Kirkman, perché Tony non ama le scadenze, non è in grado di stare dietro a una serie regolare che non può permettersi di fare aspettare il suo pubblico in costante crescita. La concordia è però smentita dalla causa intentata da Moore nel 2012, per non aver ricevuto compenso sufficiente alla cessione dei suoi diritti sulla serie. Tempo un paio di telefonate tra avvocati, e le parti si mettono d’accordo per una transazione in denaro. Niente litigi decennali alla Jack Kirby / Marvel / Stan Lee, eppure sempre roba triste per chi ancora crede nel valore assoluto dell’amicizia. Ma bisogna pur capirli, ché la posta in gioco è diventata alta.

Tra le cose accadute nel corso di sette anni, la più importante data 2005: una telefonata.
La riceve Kirkman, all’altro capo del filo c’è Frank Darabont, che più o meno gli dice le seguenti cose: «Ciao Robert, sono il regista de Le ali della libertà, ho fatto un tot di film drammatici e lavorato con Stephen King. Adesso mi piacciono i tuoi zombi e vorrei trasformarli in una serie». Ecco. Ci sono voluti cinque anni prima che quel progetto diventasse uno show di prima serata, ma poi le cose hanno inizato a muoversi velocemente. Molto velocemente.

Tipo che The Walking Dead è diventata la serie più vista della storia della TV via cavo americana, diffusa dalla stessa AMC degli stracult Breaking Bad, The Killing, Mad Men. Tipo che il numero 100 del fumetto diventa il secondo comic book più venduto negli Stati Uniti del ventunesimo secolo: davanti solo il 582 di Amazing Spider-Man del 2009 - ma quello aveva in copertina l’Uomo Ragno insieme al neo-presidente Obama, non vale. Tipo, infine, che il videogame tratto dalla serie e venduto esclusivamente attraverso la distribuzione digitale ha venduto quasi dieci milioni di copie. E dunque, improvvisamente tutti i profeti delle narrazioni transmediali (che vanno ancora molto di moda) vedono la luce, riflessa negli occhi degli zombi.

Il valore del fumetto-feuilleton originale è passato in secondo piano nelle analisi di giornalisti, critici e accademicim, eppure il racconto a puntate di Kirkman è semplicemente perfetto, nel senso di semplice e perfetto. Appare chiaro rileggendo l’enorme tomo che raccoglie i primi 48 episodi della serie (edizione in italiano di Saldapress): non è la raffinatezza della scrittura, a fare la differenza; non importa l’invenzione di nuove forme narrative né l’accumulazione di ulteriori strati di significato. L’efficacia e la coerenza della narrazione, invece, sono tutto. Ecco perché è così importante che mai si sveli da dove vengono gli zombi: le regole, una volta stabilite, non possono essere infrante.

E comunque, questa non è una storia di zombi, ripetono gli autori come un mantra: i mostri servono a creare un’atmosfera di pericolo imminente e di depressione cosmica - voi come vivreste, sapendo che dopo la morte non vi aspetta un paradiso di pace/lussuria eterna, ma una nuova esistenza fondata sull’obnubilamento, l’antropofagia, sbavare? - oltre che a giustificare le scelte a volte estreme dei protagonisti, a esasperare azioni e reazioni di una soap opera fatta di amicizie, amori, sesso, sopraffazione. La normalità di cui parla Kirkman è dunque normalità da spettacolo seriale, tuttavia la sua definizione rimane condivisibile. The Walking Dead non parla di zombi: loro stanno sullo sfondo e si limitano a ricordare, di tanto in tanto, la loro presenza ai protagonisti. Magari pappandosene uno. Ma il centro della narrazione è invariabilmente quel che passa per i pensieri e le azioni degli umani. Un modo per dare nuova linfa alle care, vecchie storie di morti viventi. Fino al prossimo spin-off, sequel, prequel, remake.

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  • Michele R. Serra

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