Ricordo quando ero bambina e si giocava nel piazzale sotto casa, ricordo le sere d’estate. Il gioco che ci piaceva di più era quello di “correrci dietro” o “alto e basso”, come lo chiamavamo. Uno “era sotto” e gli toccava inseguire gli altri che cercavano di sfuggirgli, per trovare riparo su scalini, muretti o marciapiedi.
A chi veniva agguantato toccava poi inseguire gli altri. Mi ricordo il piacere che si provava quando, inseguiti dal compagno di giochi, si riusciva a raggiungere l’agognato rialzo urbano. Ricordo l’ansia, mista ad eccitazione, quando ci si sentiva ormai braccati, sicuri di essere agguantati e invece il pericolo stimolava l’ingegno e l’urgenza di ricercare soluzioni ci rendeva attenti, ricettivi a cogliere ogni opportunità esistente per alzarci di livello, di quota. E quando in extremis, a grandi falcate, raggiungevamo l’ambito rifugio con immenso, enorme piacere urlavamo “Casa!”.
È in quell’urlo che sta ancora oggi il mio concetto di casa. Casa è rifugio, è protezione, è un rassicurante limitare dello spazio di vita. La casa definisce il limes fondamentale delle nostre esistenze.
Fino all’età di 10 anni sono cresciuta nella provincia veneta, tra Vicenza e Padova, da quelle parti quando si raggiungeva l’agognato rialzo, quando l’ingegno ci faceva cogliere l’esistenza di un gradino raggiungibile con un balzo e che diveniva la nostra salvezza, la gioia che ne derivava scatenava un urlo catartico: “Ciche, ciache casa mia”. E con la mano mimavamo in contemporanea il movimento che fa il polso con il pollice e l'indice per fingere di stringere tra le dita una chiave, che chiudeva una porta del tutto inesistente.
Eppure, quella porta e quella serratura per noi c’erano e ci proteggevano davvero. Erano i primi esercizi di solitudine in uno spazio domestico. Era la gioia di dirsi se stessi e di imparare a dirlo in uno spazio forte del suo essere idea, il piacere di dirsi a casa.
Quella gioia preclusa a molti vagabondi, "senzatetto" appunto, distesi sui marciapiedi delle grandi città, su giacigli di fortuna, come ai profughi fuggiti dalla fame, dalle carestie e dalle guerre. La casa sempre e da sempre sognata e agogntata, perché ogni donna e ogni uomo dovrebbe nascere con un diritto, quello di poter urlare “ciche ciache casa mia”.
Un tema, un romanzo...
Jean-Claude Izzo, Il sole dei morenti, e/o
Nel romanzo di Jean-Claude Izzo, la storia di un uomo con una vita come tante, che diviene un barbone, un alcolista che vive esposto al freddo e alla solitudine dei non luoghi dei senzatetto a Parigi. La storia del suo tentativo di salvezza e raggiungere Marsiglia, il sole, il mare la città carica di ricordi d'amore.
L'uomo, il vagabondo e i suoi sogni, necessari per salvare la sua umanità.