Nel 1996 Abraham Yehoshua pubblicò un saggio che si intitolava: Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare. Oggi andrebbe tentata un’impresa simile sul versante di quella panoplia di concetti che direttamente o indirettamente afferiscono al fascismo: dittatura, autoritarismo, illiberalismo, populismo, xenofobia, razzismo, democrazia autoritaria e via elencando. Senza dubbio concetti da precisare e soprattutto da ripensare.
Se è infatti discutibile che a fronte dei fenomeni degli ultimi anni un «fascistometro» alla maniera di Michela Murgia possa indicarci qualcosa di davvero rilevante su quanto sta accadendo, è indubbio che qualcosa sta accadendo. E se l’esortazione del sociologo Domenico De Masi ad associare l’atmosfera «salviniana» a quella dell’Italia del 1919 può suonare allarmistica, non c’è dubbio che un allarme deve essere avvertito.
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Il populismo nei Paesi Bassi (di Alessandro Bertellotti)
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Jörg Haider e il populismo in Austria (di Flavia Foradini)
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Populismo: l’idea plebiscitaria del consenso (di Raffaella Barazzoni)
Laser 07.03.2017, 09:00
Crisi della sinistra e populismi (di Alessandro Bertellotti e Brigitte Schwarz)
Moby Dick 11.03.2017, 10:00
Il populismo nella storia (di Brigitte Schwarz)
Storia 06.03.2017, 11:35
Il populismo in letteratura (di Mariarosa Mancuso)
RSI Cultura 10.03.2017, 17:03
Il populismo nell'arte (di Monica Bonetti)
RSI Cultura 10.03.2017, 17:02
Dal linguaggio palesemente destrorso agli slogan pre e post-elettorali di natura «protezionistica», dalla narrativa «patriottica», quando non dichiaratamente «xenofoba», ai decreti-legge discriminatori verso i più deboli, dall’utilizzo di ruspe per sgombrare gli «irregolari» ai tentativi di «bavaglio» nei confronti della stampa, e a molto altro ancora, è evidente che almeno qualche «zefiro» di carattere fascista – come li chiamava Antonio Tabucchi ricordando il suo Pereira – ha cominciato a soffiare per l’Italia e per l’Europa. E tacitare come «allarmistico» chi a tali refoli voglia associare scenari di recente e conclamata «antidemocraticità» – per non dire di dittatura – equivale a tacitare, oltre alla coscienza civica, la memoria storica.
Ciò detto non nascondiamoci dietro un dito: la «novità» salviniana – e persino la «novità» e il fin troppo propagandato «cambiamento» pentastellato – non sono in assoluto né «novità» né «cambiamenti». Come ricordava Eugenio Scalfari in un suo incontro con Umberto Eco – che nel suo Numero zero anticipava tale clima «illiberale» – «gli italiani sono sempre stati di destra e la sinistra italiana è sempre stata all’opposizione». Quindi sbalordirsi che gli italiani indichino in un neo-caudillo il loro lider maximo non ha alcunché di sorprendente.
Cento anni sono appena scoccati da Caporetto: da lì in poi è storia nota. Il Ventennio mussoliniano è archetipo e matrice – pur nella discontinuità dei suoi risultati negativi (pensiamo a figure di prima eccellenza come Giovanni Gentile) – di quel che va inteso come fascismo e dittatura. Il «doppio ventennio» (mi si passi la forzatura) democristiano fu stigmatizzato da alcuni – non da ultimo da Pier Paolo Pasolini – come prevalentemente «clerico-fascista», persino con alcune punteggiature «mafiose» (Giulio Andreotti fu riconosciuto colpevole per mafia e poi prescritto – non assolto – fino al 1980). Il «ventennio populista» (come l’ha definito Paolo Flores d’Arcais), di marca craxiana e poi berlusconiana, sappiamo in quali pantani si è concluso: nella vicenda «Manipulite» dapprima e in quello che taluni hanno chiamato un «colpo di Stato» di Mario Monti nel secondo.
Dopodiché siamo ai nostri giorni. Dalle «fanculeidi» grilline all’«italocentrismo» salviniano, siamo approdati a un nuovo condensato di Law and Order che con ogni evidenza di sinistra non ha nemmeno le sembianze. Anzi, la cui «peggiore» sembianza è semmai pretendersi estraneo tanto al partitismo che alle gloriose tradizioni politiche di un tempo: ammiccando a quel «populismo» che è in realtà una «popolocrazia» (Ilvo Diamanti) in cui il popolo diventa un referente («non esistendo il popolo, ma le richieste dei singoli gruppi sociali» stando a Massimo Cacciari) che si configura soltanto come gregge prono alla paura e alle redenzioni fai-da-te.
Quindi rassegniamoci. Azzerata la memoria storica grazie a una analfabetizzazione progressiva e totalizzante («i giovani di oggi conoscono solo 600 parole, fino a cinque anni fa ne conoscevano 4000» ci avverte Umberto Galimberti) il «fascismo» ha gioco facile a ritrovare i suoi adepti: una stragrande maggioranza di popolazione o di «popolo» a cui ha sempre fatto più paura il «negro» del «nero».
Perché il «nero» gli assomiglia? Più di quanto gli assomigli il «negro»? Certo: tertium non datur. In questa centennale e gattopardesca immutabilità dell’istinto plebeo l’Italia è sempre assomigliata a se stessa.
Vedi anche l'approfondimento Il ritorno dei populismi.