Letteratura

Morire

Tra Schnitzler e Novalis

  • 16 maggio 2021, 00:00
  • 31 agosto 2023, 12:26
Edvard Munch, Separazione

Edvard Munch, Separazione, 1896

  • © The Munch Museum
Di: Valerio Abate
Distanze del ricordo, desideri di gioventù, sogni d’infanzia, brevi gioie di un’intera lunga vita e vane speranze giungono in vesti grigie, come nebbie serotine al tramonto del sole.

Novalis, Inni alla notte

Vedere la fine della propria vita, il limite estremo sentenziato dal dottore a non più di un anno di distanza. È questo ciò che lo psichiatra e scrittore viennese ci presenta, con una pennellata larga e sbavata, ma inesorabile, nel racconto del suo esordio letterario del 1895. Un tema tetro, triste e a tratti abietto, ma estremamente reale. Morire, il solo titolo suggerisce un graduale disfacimento, specialmente se conosciamo, anche solo vagamente, l’abile scandaglio psicologico praticato da Arthur Schnitzler: scandaglio sorretto da uno scetticismo di fondo e lontano da ogni sentimentalismo se non ironico. Con il suo eroe negativo lo scrittore austriaco non mostra solo la vicenda di un uomo e di una donna, ma il volto oscuro della Vienna sul finire di un’epoca.

Nello svolgimento dei personaggi si rende evidente una profonda conoscenza della psicologia. Come un alchimista l’autore fonde medicina e narrativa per esplorare le zone più tenebrose e infime della psiche umana, senza però darne alcun giudizio morale, esattamente come fa un uomo di scienza che osserva lo svolgersi di un fenomeno naturale in determinate condizioni. Condizioni che in fondo non riguardano solo la Vienna a cavallo del 1900, ma anche noi che, leggendo questo racconto, non possiamo evitare di porci nei panni di Felix e Maria, i due protagonisti di Schnitzler, e domandarci come potremmo reagire a un tale destino.

Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler

Felix, a parte i continui sbalzi d’umore, inizialmente può sembrare che si sia rassegnato all’idea di morire e che voglia raccogliersi per un incontro dignitoso con la morte. Progetta quello che sarà il suo testamento, ma che non riguarda concreti possedimenti (anch’essi destinati a perire presto) bensì una poesia, un addio al mondo. Queste idee sorgono in lui dalla bellezza del paesaggio montano nel quale si è ritirato con Maria durante l’estate. Ne vede la bellezza che solo gli occhi di un uomo consegnato alla morte possono vedere. Non crede a nessuna possibilità di guarigione, a nessuna bugia del suo amico dottore che cerca di convincerlo che, se curatosi a dovere, guarirà. Si dà il caso che Felix conosca la sua situazione, e il pensiero della vicinanza della morte – dice – lo rende filosofo, «come è capitato anche ad altri grandi uomini». (Arthur Schnitzler, Morire, SE 1987)

Ma la speranza, «perfida e lusinghiera», si insinua attraverso i sensi: basta una brezza o il calore del sole sulla pelle, un gesto gentile o il solo placarsi per alcuni momenti del dolore. Peggio della morte, la speranza trafigge un’anima già consegnata alla morte ,mostrandole il suo ventre smembrato. Aurorale, la speranza torna incessantemente e al suo passaggio lascia solo agonia, angoscia e disperazione.

Gradualmente Schnitzler ci mostra come l’idea di dover morire consumi Felix sempre più, deformandogli l’anima. Togliersi volontariamente la vita sarebbe potuta essere una soluzione, «sarebbe stato meno avvilente». Ma non accade. Non vuole separarsi da Maria: la sua dolce presenza lo tiene seducentemente legato alla vita. Se in principio non avrebbe mai permesso a Maria di morire con lui – cosa che lei all’inizio intendeva fare –, Felix inizia a preoccuparsi che lei, nel caso in cui avesse promesso di togliersi la vita sulla sua tomba, non avrebbe mantenuto la promessa. E così inizia a pensare che Maria debba morire con lui, o prima di lui.

Maria, diversamente da Felix, incarna un bagliore romantico, che fino all’ultimo si prenderà cura del suo eroe. Nonostante questo lentamente la consumi, pallida e apatica, lei non desiste. Non lo abbandona nemmeno quando, con folle e violento terrore, Felix le fa capire che vuole portarla con sé. Quale fardello può diventare l’assistenza dell’amato/a malato/a? quale spossatezza può soparaggiungere durante la visione non solo della decadenza del corpo, ma dell’anima deformata dal dolore e dalla paura? specialmente quando, in questa cura continua, ci si dimentica di sé e la persona che si accudisce con tanto amore e forza vuole trascinarci nel suo baratro per invidia o per un malsano senso di possesso?

La morte che all’inizio Felix, dopo aver goduto dei piaceri della vita, avrebbe voluto affrontare da filosofo con solennità e regalità, magari di propria mano, diventa un’ombra sempre più opprimente, e ogni giorno che passa si ritrova disperatamente più attaccato alla vita. Il suo stato psicologico non gli permette più nemmeno di leggere romanzi, lo annoiano, e quelle storie in cui si prospettano vite lunghe e fiorenti lo sconvolgono profondamente. Così decide di dedicarsi alla filosofia, immergendosi nelle opere di Schopenhauer e di Nietzsche, ma quella saggezza lo acquieta solo per breve tempo. Quelle parole gli si mostrano più ripugnanti di tutte le altre: quello dei romanzi «è per lo meno un favoleggiare sincero… Ma questi signori, sono dei perfidi posatori... Disprezzare la vita quando si è sani come un dio, e guardare tranquillamente in faccia la morte quando si viaggia per l’Italia e la vita fiorisce intorno nei più fulgidi colori, non è altro che posa. Si provi a chiudere uno di questi signori in una stanza, lo si condanni alla febbre e alla difficoltà di respiro, gli si dica che tra il 1. gennaio e il 1. febbraio dell’anno seguente verrà sotterrato, e poi lo si lasci lì a filosofare». Sono tutti commedianti. Gli uomini semplici hanno paura dell’ignoto. Tutti i grandi della storia di cui si conosce la morte hanno recitato una commedia per la posterità. Felix ammette di avere una sconfinata paura, e chi non mostra questa paura di fronte alla morte è perché finge. Nessuna persona sana può capirlo, bisogna essere dei condannati a morte come criminali o come malati. Il saggio che pronuncia aforismi sulla vita dopo aver vuotato la coppa di cicuta, l’eroe della libertà impassibile di fronte ai fucili o sul suo stesso rogo, «tutti costoro fingono, io lo so, e la loro compostezza, il loro sorriso è una posa, poiché tutti hanno paura, un’atroce paura della morte, così naturale come lo stesso morire!»

Figlio del nichilismo moderno e del più estremo solipsismo, il personaggio di Schnitzler nega ogni eroismo e annulla ogni valore della morte. Lui, perché lo sta vivendo, sa cosa si cela dietro la maschera di tutti i Socrate, i Gesù, i Bruno, e per estensione sa che persino il samurai sconfitto che pratica il suicidio rituale finge, e che fingerà anche il monaco buddista che si dà alle fiamme per la pace. Tutto vano, tutto nulla. Perdere il tempo e ogni possedimento, ogni sensazione e opportunità, ogni amico, Maria, la sua stessa vita. Con la morte il punto è perdere, perdere ogni cosa conosciuta e ogni possibilità a venire, perdere contro la vita stessa che procede indisturbata anche dopo di noi. Il suicida sceglie la morte, il guerriero accetta il rischio, il criminale condannato ha infranto le leggi degli uomini, ma la malattia mortale è insensata, e quindi ingiusta. E ci consegna a un’attesa più tremenda. Chi può dire come affrontarla? Persino Socrate, Gesù, Bruno e altri morirono ingiustamente, è vero, tuttavia le loro morti non solo avevano senso, lo creavano. La morte della malattia cosa lascia?

Impossibile comprenderlo davvero. Ciò che, forse, possiamo fare è posare l’occhio su coloro che affrontarono la malattia, guardando in faccia la morte, non con paura ma con nostalgia, come ad esempio Leopardi o Novalis, il quale, non ancora ventinovenne morì dello stesso infausto destino dell’eroe di Schnitzler, lacerato dalla tisi. Si dice che, nonostante il declino fisico lo consumasse nel fiore degli anni, Novalis abbia guardato con serenità alla fine imminente. Tra la morte di Felix e quella di Novalis si è andato così creando un parallelismo che non sfocerà mai in un incontro. Schnitzler ha infatti mostrato, quasi un secolo dopo l’esponente del romanticismo tedesco, nell’epoca della psichiatria, delle città illuminate elettricamente e della morte di Dio, il contrasto spirituale e l’abisso che separa l’eroe negativo della secolarizzazione e l’eroe – in questo caso reale – del romanticismo, il quale affrontò la morte come aveva affrontato la vita: non con angoscia, ma con nostalgia. Così, diversamente da Felix, Novalis non è mai stato totalmente attaccato alla vita perché sempre pervaso dalla Sehnsucht nach dem Tode, e la perdita della vita per lui non potè che avvenire nostalgicamente, come un ritorno a casa dopo un lungo e meraviglioso viaggio che, con lievi mani, si lasciò alle spalle, abbandonandosi tra le braccia della Notte.

Alla fine il vero protagonista del racconto di Schnitzler non è Felix né Maria, e nemmeno la morte, bensì la paura della morte e il suo inarrestabile potere di piegare l’anima dell’uomo come fosse argilla fresca. Paura che lo trasforma, o meglio deforma dall’interno lasciando attecchire egoismo, rabbia, odio e violenza. L’eroe negativo di Schnitzler presenta proprio il problema dell’uomo moderno che, in un mondo in cui il nichilismo – come dice Ernst Jünger – è diventato condizione normale, non crede in nulla, e nonostante ciò (o proprio per questo) ha una sconfinata paura della morte, e quindi cerca in ogni modo di evitarla. E se noi troviamo il tema della morte così evitabile è perché, per ora, in fondo siamo più come Felix che come Novalis.

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