Letteratura

Andrea Bajani ci parla del romanzo con cui ha vinto il premio Strega 2025

“L’anniversario” questo il titolo del libro vincitore del più importante premio letterario italiano. Una riflessione su come sfuggire alla violenza della famiglia

  • Oggi, 11:15
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Andrea Bajani
Di: Michele R. Serra 
«Questo è un libro per tua madre» ha sempre significato, nelle parole pronunciate da lui, che un romanzo non valeva nulla. C’era, in quest’affermazione, anche una specie di affetto. Si trattava di quello specifico affetto, perverso, sincero e violento, che consegue, o sostanzia, l’affermazione di un dominio. Inserire il romanzo in questione nella libreria di casa, che giorno dopo giorno lui costruiva da volenteroso autodidatta, era un’altra concessione che le faceva. Ma decretare che un libro era per mia madre voleva dire principalmente che il posto più adatto sarebbe stato il cassonetto.

Andrea Bajani, L’anniversario

Poche righe dall’ultimo romanzo di Andrea Bajani, L’anniversario, fresco vincitore del più importante premio letterario italiano, lo Strega. Sono parole che descrivono il dominio di un uomo su una donna. Lui è il padre del protagonista, un uomo del secolo scorso che domina con violenza fisica e psicologica sua moglie, finché il figlio decide di fuggire da questo circolo di violenza.
L’anniversario di cui parla Andrea Bajani, il titolo del libro, è l’anniversario del giorno in cui il protagonista ha deciso di lasciare per sempre i genitori, di non vederli più. Diventato uomo, va a vivere dall’altra parte dell’oceano, si costruisce una famiglia, taglia completamente i rapporti.
L’anniversario spiega perché è arrivato a quella decisione, e per farlo racconta la storia dei suoi genitori e del loro rapporto, di un padre che domina sulla madre, di una madre che è vittima e mai sembra provare a ribellarsi, a quel dominio fatto di violenza fisica, ma anche e soprattutto psicologica.
In poco più di 120 pagine, L’anniversario disseziona questa famiglia, e questa situazione che porta alla fuga del figlio in un altro continente. E proprio in un altro continente l’ha composto Andrea Bajani, che insegna scrittura creativa negli Stati Uniti, in Texas, e lì vive con la famiglia.

Michele R. Serra: Il suo corso all’Università di Houston si intitola Writing the Family, scrivere la famiglia… quindi questo romanzo conterrà tutto quello che ha insegnato in questi anni ai suoi studenti, in pratica.

Andrea Bajani: Forse è la somma di quello che ho cercato di imparare da loro, mi vien da dire. Ogni anno qui faccio un corso diverso, e a volte ci sono dei temi, che scelgo sulla base di quello che mi interessa, di quello a cui sto lavorando, su cui sto riflettendo. Quando ho scelto il corso Writing the Family mi interessava, perché è uno dei miei temi da sempre. Da che scrivo libri, scrivo intorno a quel tema e credo anche che, culturalmente parlando non possiamo uscire da quel tema, nel senso che, come italiani… tutti si aspettano che l’italiano arrivi a parlare delle famiglie.

Ma al di là di quello, è stato molto interessante perché poi mi sono trovato in classe persone con un desiderio di raccontare cose indicibili… o più che indicibili, forse incomprensibili. E la cosa che mi è stata subito chiara era che tutti pensavano che la propria famiglia fosse un universo così complesso, così complicato… non necessariamente terribile, nel senso che ci sono casi di persone che vogliono scrivere del rapporto tra fratelli, di quanto sono grati alla famiglia, e tutto l’albero genealogico. Insomma, non c’è solo il trauma. Ma c’è comunque questa idea che la famiglia sia un organismo chiuso, che c’è un’impossibilità assoluta di farlo capire a qualcun altro. E quindi la grande sfida è: come si porta fuori? È una storia che ha come elemento fondativo il fatto di succedere dentro. Dopo aver lavorato con i miei studenti, dopo essermi reso conto che loro pensavano alla famiglia come a un organismo chiuso, a un certo punto mi sono mi sono trovato a pensare: voglio anch’io svolgere questo tema che do da fare a loro. E però, per una volta, vorrei provare a pensare che da quell’organismo uno può anche uscire. Che non è soltanto, come dire… il regno del sangue, dell’arcaico.

Ma quindi, se mi perdona la domanda banale, L’anniversario è stato scritto d’istinto, oppure mettendo prima sul tavolo una serie di regole?

Le due cose, scrivendo, vanno sempre insieme. L’istinto è sempre un lungo pensare che a un certo punto erompe, con un gesto naturale. Questo è l’istinto. L’istinto del guidatore è se c’è il ghiaccio, un certo modo di tenere il volante. Ma non è che l’ha imparato per istinto: quel momento è una somma di regole apprese, che poi a un certo punto trovano la loro maturazione e escono fuori in maniera persino misteriosa.
Quando io, dopo aver lavorato con gli studenti, poi mi sono messo lì al tavolo a scrivere, a fare il loro stesso compito… non era minimamente premeditata, come cosa. È una cosa che a un certo punto è successa, ma se non ci fosse stata una riflessione, a me per certi versi ignota, in tutto quell’arco di tempo, non sarebbe venuta fuori.

È un vantaggio, scrivere lontano dall’Italia? Mettere in scena l’allontanamento di un figlio, che rifiuta di giudicare la famiglia standoci dentro, ma cerca piuttosto di guardarla dall’esterno per scoprirne la mostruosità… Questo è più scandaloso nel contesto italiano che in altri paesi, come ad esempio gli Stati Uniti? Perché la distanza, margari, libera un po’ degli stereotipi italiani: la famiglia sacra, la mamma intoccabile, eccetera.

Credo di sì, in generale però mi sembra ci sia una differenza molto forte tra la cultura cattolica e la cultura protestante. Quando i miei agenti alla Fiera di Francoforte lo scorso autunno stavano vendendo i diritti di questo libro, mi raccontavano di reazioni molto diverse tra gli editori di Paesi del sud, a maggioranza cattolica, e Paesi a maggioranza protestante.
Essere qua negli Stati Uniti per me naturalmente conta molto. Una cosa che racconto spesso è di quando ho spiegato il tema del libro al mio fisioterapista, mentre mi sistemava la schiena. Insomma, gli ho raccontato: c’è un figlio che a un certo punto vuole andarsene, e prova a raccontare lo strappo, è drammatico… lui, riassumendo il libro all’americana, mi ha detto: «Okay… remove yourself from the situation». Cioè in pratica, togliti, spostati dalla situazione, no? Che, voglio dire… è una cosa culturalmente possibile, accettabile.
E invece, appunto, in culture diverse tutto questo magari è impossibile. Esiste la legge per divorziare, i rapporti lavorativi si possono interrompere, le amicizie si possono interrompere. E poi c’è invece questa cosa misteriosa, che nella famiglia vale solo la legge del sangue, non c’è diritto. Allora scrivere di questa cosa da un posto in cui la stessa storia può essere raccontata semplicemente come «remove yourself from the situation», spostati da lì… era forse l’unico posto in cui poteva essere scritta.      

"L'anniversario" di Andrea Bajani, Feltrinelli (dettaglio di copertina)

"L'anniversario" di Andrea Bajani, Feltrinelli (dettaglio di copertina)

  • feltrinellieditore.it

E perché c’era bisogno di avere un sottotitolo che specifica che questo è «un romanzo»?

Perché siamo in un’epoca in cui qualsiasi libro che abbia un “io” con un’intensità emotiva molto forte, non solo si dà per scontato che debba coincidere con l’autore, ma in qualche maniera è come si fosse derubricato il romanzo a qualcosa di secondo livello. C’è questa specie di doping della vita vera: quello che conta è soltanto la vita vera. E in questa maniera però è come se si dicesse che il romanzo non può più niente, che non conta più nulla, che l’immaginazione che non conta più nulla, l’immedesimazione neanche. Che l’unica cosa che conta, quindi, è l’essere spettatori, feticisti di una vicenda altrui.

Il romanzo invece ha questa natura che non si codifica mai, che di volta in volta tiene dentro cosa è vero, cosa non è vero, cosa è reale cosa non è reale, ma sempre punta all’immedesimazione, a far sì che il lettore o la lettrice che prende quel libro in mano non possa dire «Ah, sì, quella è la sua storia!». No, è troppo comodo così. Quella è la storia di tutti. Il memoir, l’autofiction… queste cose qua come lettore mi interessano infinitamente. Come scrittore, no. Come scrittore credo nel romanzo.
Un sottotitolo del genere, probabilmente trent’anni fa non sarebbe stato necessario. Ma oggi se uno legge Lo straniero di Camus, dice: «Oh, povero Albert Camus!».          

Proprio dal punto di vista tecnico, da dove viene la lingua dell’Anniversario? questo tono che cerca di essere il più possibile razionale, trattenuto.

Mi interessa molto l’idea del “trattenuto”, perché una delle definizioni più azzeccate che io conosco di “stile” è di Giorgio Agamben, che dice: «lo stile è impazienza trattenuta». Cioè, hai un istinto ad andare, e invece tu tieni le redini. Quindi le ragioni stilistiche – che è quello che poi insegno ai miei studenti – sono ragioni profonde, estetiche ed etiche, sempre insieme.
In questo libro c’è innanzitutto una modalità compositiva particolare: è stato scritto velocissimo, nella sua prima stesura. In venti giorni l’ho scritto tutto, e poi l’ho portato avanti per anni. Con una tensione, il tentativo di arrivare a una scrittura… inesorabile. La stella polare era: niente autocompiacimento, vietata la frase bella, vietata la frase wow. Niente di tutto questo.

Perché, in qualche maniera, lo stile corrisponde al libro. Cioè, se il sistema familiare è un universo chiuso, io racconto proprio di un universo impermeabile, dove non c’è il telefono, una specie di piccola dittatura domestica, fondata sul appunto sull’esclusione del mondo esterno. E in quel mondo così chiuso vige, come in ogni sistema chiuso e anche per certi versi totalitario, la manipolazione. La lingua è manipolatoria. C’è il padre patriarcale che decide qual è la versione della famiglia giusta, quali sono i ruoli da assegnare. Quindi la madre è quella che deve essere invisibile; il figlio maschio, sottomesso, ma anche teoricamente dovrebbe ricevere l’eredità di un certo tipo di maschio. La sorella è, come dire, antagonista e solidale con la madre, divisa in qualche misura dal fratello per via della divisione dei ruoli... Tutto questo sta dentro un modo di raccontare le cose.
La versione ufficiale del romanzo famigliare è quella del padre. Per uscire fuori da quella versione manipolatoria e di parte, quello che il figlio maschio può fare, deve fare, è: uno, rifiutare l’eredità. Dire «io non sono quel tipo di maschio», e anche «non voglio perpetuare questa cosa». Due, rifiutare i ruoli: mettere la madre al centro, e non tenerla nell’invisibilità. Tre, rifiutare la manipolazione, quindi rifiutare una lingua che sia manipolatoria e raccontare la storia nella maniera più… non direi distaccata, ma forse più aderente, più onesta, più fuori. Non mi piace chi si attribuisce l’onestà, intendiamoci… intendo qui una distanza, la più grande distanza possibile dal giudizio, che invece dentro il sistema familiare era l’elemento primario. Il modo in cui è scritto il libro risponde esattamente a questa esigenza di distanza.

Nel libro il protagonista racconta diversi episodi di violenza. Quasi peggio della violenza fisica, però è la situazione di tensione continua, di minaccia psicologica, che irradia dal padre verso tutta la famiglia. Però è inevitabile pensare che se quest’uomo non fosse stato in grado di sottomettere fisicamente gli altri membri della famiglia, la violenza psicologica sarebbe stata tutto sommato più semplice da evitare. La violenza, al di là di tutti i discorsi che si fanno al riguardo, rimane un fatto fisico prima che psicologico e culturale. Oppure no?

Diciamo che c’è un procedimento, uno sviluppo, un’evoluzione del pensiero che il narratore segue quando racconta. E la direzione di questo pensiero è, fondamentalmente: smontare ogni conclusione a cui lui stesso arriva. Questo è il suo lavoro, non dare per buono niente, persino quello che lui pensa.
Quindi racconta questi episodi di violenza domestica, e poi dice che in realtà lo scacco psichico in cui quest’uomo, il padre, teneva il resto della famiglia, fa parte della stessa aggressività. Sono due modi di esprimerla.
Detto questo, e non per sminuire la violenza fisica, il potere della psiche è enorme. I grandi dittatori non prendevano a pugni la gente: usavano il terrore, l’intimidazione. L’intimidazione, l’alludere a un’eventuale violenza fisica che potrebbe succedere, è una delle modalità più inaccettabili della gestione di un dominio maschile sul femminile, un dominio criminale. L’intimidazione funziona in questa maniera: è come se fosse la violenza fatta scaturire nell’immaginazione di chi è minacciato. Scatena nella mente del minacciato gli scenari più spaventosi… persino più spaventosi di quanto potrebbe essere un pugno.

A proposito di mettere in discussione continuamente il racconto: leggendo, inevitabilmente si affaccia un sospetto inquietante. E cioè che l’accettazione della situazione da parte della madre del protagonista sia in fondo un accordo perfetto, tra un sadico e una masochista. Quindi funziona il meccanismo che lei ha costruito, che ci fa riflettere sul perché ci viene da pensare che le vittime siano in qualche modo complici.

Credo sia uno dei centri del libro, il rifiuto che le famiglie siano composte da membri singoli che condividono uno spazio fisico. No, è un sistema. Ed è un sistema del tutto incomprensibile al di fuori. Le dinamiche delle relazioni legano tutti gli elementi, compreso chi racconta, che in qualche maniera deve liberarsi prima di tutto dal ruolo che ha giocato nel sistema. L’incapacità di sottrarsi, la paura di essere complice, la sofferenza auto-inflitta, l’annichilimento… è questo sistema di relazioni, lei l’ha chiamato sadomasochista, e possiamo chiamarlo in tutti i modi, ma certo è un sistema in cui ciascuno gioca un ruolo, e questo ruolo è incomprensibile al di fuori del sangue.

Gli unici momenti in cui appare una forma di ironia paradossale, pur se molto asciutta, sono quelli che raccontano la psicoterapia a cui si sottopone il protagonista. C’è qualcosa di inevitabilmente paradossale, perfino un po’ folle, proprio nella psicoterapia in ?

Sono due parenti, il romanzo e la psicoterapia. La psicoterapeuta è un personaggio che è stato molto affascinante da scrivere. Il suo lavoro è cercare di smontare la versione precedente di una storia, la versione precedente dell’uomo che le sta seduto davanti. Lei lo deve smontare, e dirgli: «Guarda, non c’è nessuna storia: ti tocca reinventarla tu». Ed è quello che il protagonista fa raccontando questa storia. Lui dice, devo scrivere un romanzo per inventare mia madre, perché non so dice neanche chi sia. Deve smontare la versione del romanzo familiare fornita dal padre, e in qualche maniera inventarne una nuova.

La frase che chiude il libro è «E non fa bene, e non fa male». Fa parte di un finale dove sembra esserci un raggio di luce, di speranza, però un po’ posticcio. Nel senso che la presa di coscienza della realtà della famiglia non ha portato il protagonista a un tentativo vero di cambiare le cose, ma solo a un distacco. Non salva nessuno, non c’è alcuno slancio eroico, solo un atteggiamento stoico che si avvicina molto alla rassegnazione.

Allora, il fatto è che il protagonista capisce che dentro quel sistema non c’è possibilità di azione. La questione vera credo sia l’accettazione del fatto che quando la famiglia diventa un posto inospitale, violento, quando diventa un posto non sicuro, uno ha il diritto di riconoscerlo. Questa è rivoluzionaria come cosa. In una cultura come la nostra, lui rivendica un diritto, ed è come se facesse un’azione collettiva.
Non identificando la famiglia in generale come istituzione sbagliata in sé, perché quella sarebbe stata la vera sconfitta, intendiamoci. Tant’è vero che anche il protagonista finisce per costruirsene una.
Però per dire – e questa è la vera lotta che fa, non solo per sé, ma anche per gli altri – che esiste il diritto di non soccombere.

Legato alla trasmissione Alphaville (Rete Due), 04.07.2025, ore 11:45.

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