capolavori ritrovati

Attenti alle streghe di Mendrisio (e a certi preti)!

Nel 1859 Don Giorgio Bernasconi, prete ribelle del Mendrisiotto, scrisse una feroce satira della religione e del potere, mascherata da poema gotico. Joël Vaucher-de-la-Croix ce l’ha riportato davanti agli occhi, ed è un trionfo di ironia

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Di: Lucrezia Greppi 

Dieci canti in ottava rima, un proemio con un’invocazione alla musa ed una dedicatoria: così si presenta Fra Bonagiunta e le streghe di Mendrisio (1859), poema del «romito del Monte Generoso» Don Giorgio Bernasconi, parroco anticlericale di Salorino. Un classico, si direbbe. Peccato che chi dovrebbe ispirare il poeta è un’avvinazzata impenitente, a cui vengono offerti in sacrificio ben «tre fiaschetti». E che la dedica non sia per un glorioso mecenate, che si cerca di imbonire, ma è destinata alle donne, rimproverate perché – neanche a dirlo – son tutte mobili e scostanti. Gli uomini invece, come dimostrerà, sono ben fermi… nei loro vizi! Un piccolo depistaggio iniziale, che si aggiunge alla varia tradizione cui lo scrittore si accoda: i poemi cavallereschi, di Boiardo, Ariosto e Tasso, ma anche l’eroicomico, del caposcuola Tassoni e dell’emulatore Forteguerri, ed un pizzico di burlesco, da Pulci a Casti.

L’ambizione dell’opera è di essere un romanzo storico («non conto frottole», premette al lettore), ma l’anima è gotica. Joël Vaucher-de-la-Croix, che nell’ultimo numero della rivista Fogli (n.46/2025) della Biblioteca Salita dei Frati di Lugano ha portato l’attenzione su questo peculiare libretto, annunciandone una futura edizione commentata, lo definisce «una vera e propria epopea nera del Mendrisiotto». Lo stile spazia dal grottesco all’idillio, dall’osceno all’elegia: alle divagazioni liriche sul paesaggio ticinese si alternano racconti di scene turpi, dove il locus horridus delle magioni dei potenti prevale sul locus amoenus del Monte Generoso. Ed anzi, sono proprio i due villain dell’opera a infrangere la pace agreste che qui regnava.

Fra Bonagiunta e le streghe di Mendrisio, 1859

Fra Bonagiunta e le streghe di Mendrisio, 1859

O Musa, o tu cui l’acqua poco piace
[…] la botte per qualc’ora deh! abbandona!

In principio era il vino. Ad esserne dipendente è la Musa «magra e consunta» a cui l’autore si rivolge: la «fata negra» seguace di Bacco che occorre implorare per farla smettere di trincare. Non disdegna un bicchierino neanche Farfarello, l’innocuo diavoletto che ha preso possesso del corpo di una ragazza (tanto quanto l’“integerrimo” esorcista Fra Dionigi): quando gli viene spruzzata l’acqua benedetta ribatte infatti che preferirebbe del buon vino. Una bella sbornia non se la negano nemmeno i popolani al seguito del contadino Nino, capitano di una truppa sgangherata più interessata a depredare il castello dove era stata rapita la bella Martina che a salvarla. Li troviamo intenti a trangugiare litri di vino e, una volta paghi, porre su una barella il sacco del denaro, e non la sfinita poveraccia, che se ne tornerà a casa sulle sue gambe traballanti. Ad essere «portata a festa» è così la «barella d’or», sorretta da quei villani barcollanti che Nino esorta inutilmente a marciare degnamente: «l’un marcia a passo forte, l’altro piano / e nel tallon l’un l’altro dà percosse; / se sosta l’un, un urto al deretano / dà l’altro, che il suo passo non rimosse».

Se il «dolce licore prelibato» può far ritrovare l’ispirazione, come si augura l’autore nel nono canto degustando un calice d’Asti, è anche utile per sedare sudditi e tiranni: «nel vino e nei piacer l’ira si frena». È così che il despota di quartiere, Fra Bonagiunta — lo stesso che aveva rapito Martina — riesce a farla bere al popolo, versando qualche lacrimuccia e dispensando molto vino. Alla fine, proprio il vino sarà l’arma con cui verranno ammansiti lui e il suo compare Cane, prima della loro uccisione. Ma Don Giorgio non si illude: «spento un tirannello, un altro sorge… il pesce grosso mangia il più piccino».

Fer segni in terra in ciel colla bacchetta
indi all’insù voltarono il servizio,
le natiche scopriro e fer trombetta

Le streghe son le sole che non si presentano in false vesti, al contrario di quei «velati lupi maledetti» che sono i cattivi chierici, o gli sgherri di Fra Bonagiunta – Grippa, Ongino, Magnacani e Bigio –, i quali «sembrano del fior de’ gentiluomini» ma «sono gente da bordello». I “raffinati” rituali delle megere servono ad evocare il «re d’averno» Asmodeo, il demonio con zampe d’oca che avrebbe infestato la vetta del Monte Generoso, poi detta Croci d’Occo. Oggi le croci non ci sono più, e sono quindi libere di infestare la selva le discendenti di Pataffia, Piviana, Catamalafara e Gambaverta: «gialla in viso, zoppa e nana» la prima; «astuta e pazza» la seconda; sdentata ma mordace la terza; secca e storta come un chiodo l’ultima.

Degni soci delle megere son gli sgherri, ed in particolare Magnacani, protagonista di un glorioso duello con «uno sguajato Nano» cui gli lancia un sasso, dopo che questi gli aveva fatto «le fiche in faccia» e tirato «un grosso peto sulla faccia». Nemmeno a simili lotte, in effetti, lui e i suoi compari erano abituati. I “coraggiosi” bravi del potente Fra Bonagiunta – personaggio ispirato al leggendario Mago di Cantone – erano soliti rapire affamati viandanti e giovane donne, per poi condurli nel castello del loro signore, tra Rancate e Riva San Vitale, e dopo ancora nella grotta vicina, dove torturavano le vittime che infine finivano nel laghetto sotterraneo.

Lo stesso vizietto lo aveva il Signor Cane: ma fame, freddo, catene e frustate non spezzano Antonia, l’unica donna di cui si era invaghito e la sola eroina del poema. Dato che la nobildonna, del casato dei Rusca, non contraccambiava il sentimento di quel rozzo parvenu, la aveva “naturalmente” fatta rapire, segregare e torturare. Impavida, la donna si ribella e ride in faccia ai suoi aguzzini:

Le labbra si mordeva, e sangue e bava
escivale dal naso e dalla bocca,
le belle e tonde carni si sconciava,
strappavasi i capelli a ciocca a ciocca;
non supplice chiedeva, ma imprecava
contro ciascun che appressala e la tocca,
idrofoba pareva e dava morsi
peggiori delle jene, o tigri od orsi

Don Giorgio qui ribalta il topos, quasi un cliché, della donna abbandonata che per la disperazione si strappa i capelli: l’«altera e bella» Antonia, dai cui occhi stillano «non lagrime» «ma faville», lotta a tal punto per la propria libertà che «sparve la sua beltade a tal ferocia». Fino alla fine, quando la sua anima spira dalla grotta dove era incatenata e che prenderà appunto il nome di Böcc dala Togna. Una bella lezione di fierezza, a tutte quelle donne che Cane fece rapire per darle in sposa ai suoi tirapiedi, e ripopolare così il paesino di Caneggio. Qualche lamentela ma presto «ben contente furon le ragazze / che sposi si trovar d’ottima lega».

Quest’era un fratacchion grasso e petardo,
[…] sembrava, con rispetto, un gran majale

La critica anticlericale attraversa l’intero poema: l’esorcista Fra Dionigi violenta una povera ossessa, Fra Bonagiunta non è neppure uno stinco di santo, e c’è persino un frate goloso che vorrebbe digiunare per “interposta persona”: a banchetto con il poi Beato Manfredo Settala, eremita del Monte San Giorgio, dice placidamente: «potessi io pur mangiar scalogne e ceci / come tu fai per quindi salvar l’alma! / Ah sì tu che lo puoi, fanne le veci». Non manca una critica alla complicità interna dei religiosi, così come un’ampia invettiva contro la degenerazione della religione cristiana, e una digressione satirica sull’ipocrisia dei credenti: «si davano sul cul percosse pazze […] e quando era ben livida la polpa / credevansi mondati d’ogni colpa».

Sotto il riso amaro di Don Giorgio si nasconde un messaggio lucido: «erra chi stima l’uom dal vestito». La giustizia è spesso «un nome, un’illusione e pura scorza», la coscienza una «chimera», la felicità una «fenice». E dietro la maschera gotica e burlesca del poema, c’è l’invito a cercare la verità e la luce:

O Cristo che versavi tutto il sangue
per apportare al mondo la tua luce
[…] non vedi come l’uom tuttora langue
oppresso dal serpente che il seduce,
nascosto sotto il vel di Religione
per attutir nell’uomo la ragione?
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Le streghe della Valposchiavo

Il Quotidiano 05.07.2021, 21:25

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