Letteratura

Carl Spitteler

Il Gottardo e la neutralità tra immaginazione, realtà e mito

  • 26 maggio 2023, 00:00
  • 14 settembre 2023, 09:01
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Di: Mattia Mantovani

Proiezione immaginativa o realtà? Una cosa è certa: per gli esponenti del cosiddetto “patriottismo critico” nella seconda metà del Novecento, una corrente culturale rappresentata soprattutto da scrittori e cineasti, il San Gottardo fu l’emblema e il simbolo della “cattiva Svizzera” uscita indenne dal secondo conflitto mondiale e prigioniera del proprio mito e della propria leggenda. Un tunnel senza uscita, una riproduzione in chiave moderna dell’inferno dantesco, una barriera, un ostacolo, un luogo claustrofobico: questo è sostanzialmente il Gottardo in un certo immaginario svizzero del secondo dopoguerra.

Max Frisch, ad esempio, nel “Guglielmo Tell per la scuola” del 1971 ne smontò pezzo per pezzo la mitizzazione e l’ideologizzazione e fece del Gottardo la quinta di cartapesta sul cui sfondo si muovono un Guglielmo Tell micragnoso e davvero poco credibile e gli altri presunti padri della patria. L’altro grande e non meno controverso “patriota critico”, Friedrich Dürrenmatt, smontò il mito del Gottardo in un racconto intitolato significativamente “Il tunnel”, del 1952, e poi nella fantasia apocalittica “La guerra invernale nel Tibet” (uno dei “materiali” autobiografici editi nel 1981, ma l’abbozzo risale a trent’anni prima): il massiccio montuoso (la “madre artificiale”, secondo la definizione di un altro patriota critico e grandissimo narratore, l’argoviese Hermann Burger), le sue viscere e la galleria ferroviaria, ben lungi dall’essere un dono divino oppure la concretizzazione delle “magnifiche sorti e progressive”, erano piuttosto l’immagine simbolica del “ridotto” e della chiusura a riccio, di un’oscurità che rendeva impossibile distinguere carcerati e carcerieri, come lo stesso Dürrenmatt sottolineò velenosamente nel celebre o famigerato discorso “La Svizzera, un carcere” nel novembre 1990, poche settimane prima di morire.

Cose trascorse, si potrebbe obiettare, archeologia, “politically incorrect”, retaggio di un’altra epoca, quando le ideologie e le utopie dettavano l’agenda politica e culturale. Comunque sia, le radici del mito affondano saldamente nel passato: secondo Albrecht von Haller, autore nel 1729 del poema “Le Alpi”, la natura aveva innalzato le Alpi e principalmente il Gottardo («la cui vetta sovrasta le nuvole») per “recintare” la Svizzera dal resto del mondo, il che è molto opinabile sul piano squisitamente geografico e più ancora come appiglio ideologico. Si capisce quindi il motivo per cui, tre secoli e mezzo dopo, negli anni delle contestazioni giovanili di Zurigo, ci fu perfino chi propose provocatoriamente di raderlo al suolo, perché la sua ingombrante presenza fisica e soprattutto mentale impediva -come diceva un celebre slogan dell’epoca- la “vista libera sul Mediterraneo”, espressione simbolica che stava a indicare la fuga dal “disagio nel piccolo Stato” e dalla “Enge”, la “strettezza”, due concetti che per un certo periodo furono molto in voga, fino a diventare quasi uno stereotipo, per definire l’altra faccia dello “swiss way of life”.

Ma c’è stato anche un tempo nel quale il Gottardo veniva visto con altri occhi, all’interno di una dimensione forse più ingenua, ma senza dubbio meno strumentale. Nel 1896, ad esempio, il Gottardo non era ancora una quinta di cartapesta della quale sarebbe stato meglio sbarazzarsi. Era piuttosto l’emblema -sicuramente mitizzato, ma non ancora ideologizzato in maniera strumentale e in seguito non meno strumentalmente deideologizzato- dell’indiscutibile peculiarità elvetica, perché con la sua posizione geografica e le sue caratteristiche esprimeva plasticamente l’immagine di una nazione formata da più popoli e più lingue e quindi strettamente legata alla più ampia cultura europea, soprattutto in considerazione del fatto che il Gottardo invia quattro fiumi verso differenti mari e segna la linea di demarcazione ma anche di contatto e di scambio tra Nord e Sud, tra l’Europa germanica e l’Europa latina. E’ questo il Gottardo visto e vissuto da Carl Spitteler, lo scrittore di origini basilesi ma lucernese di adozione, nato nel 1845 e morto nel 1924, Premio Nobel per la letteratura nel 1919, che nel 1896 dedicò alla montagna elvetica per eccellenza un libro intitolato “Il Gottardo”.

Nel 1894, dodici anni dopo l’inaugurazione di quello che ormai è il vecchio tunnel, Spitteler ricevette infatti dalla Società Ferroviaria del Gottardo (che nel 1909 fu poi inglobata nelle Ferrovie Federali Svizzere) l’incarico di scrivere un libro che illustrasse le bellezze e le attrattive turistiche della zona, senza tuttavia rinunciare al valore squisitamente artistico. Il volume, uscito due anni dopo, rimane un prezioso documento storico e una delle testimonianze più vive, originali e letterariamente pregevoli dedicate al Gottardo inteso non solo come luogo geografico, ma anche come spazio umano e culturale. Il futuro Premio Nobel -ironia della sorte: lo vincerà principalmente per il dimenticatissimo epos mitologico “Primavera olimpica”- descrive la zona del Gottardo percorrendola prima in ferrovia e poi a piedi, fornisce consigli per escursioni e passeggiate, si sofferma sulle caratteristiche climatiche e di luce, si addentra in alcune valli laterali e ricostruisce in maniera divertente e talora perfino scherzosa e dissacrante il significato e l’importanza del Gottardo nella storia: il suo, per operare una variazione sul titolo di un racconto di Gottfried Keller, è lo “sguardo perduto” di un viaggiatore d’altri tempi, capace di avvicinarsi al mito con ironia romantica.

E’ un’ironia che si coglie anche una lettera dell’ottobre del 1896, indirizzata all’amico di tutta una vita Josef Viktor Widmann, redattore del “Bund” di Berna e primo scopritore del talento poetico di Robert Walser. Scrive infatti Spitteler, parlando del volume da pochi giorni nelle librerie: «A proposito di Gottardo e natura alpina. Il mio più grande desiderio, adesso, sarebbe di far saltare per aria con la dinamite il Gottardo e tutte le Alpi, in modo tale da avere libero accesso all’atmosfera italiana». Non lo fece, ovviamente, e nemmeno lo pensava. Ma queste sue considerazioni, proprio nella loro connotazione volutamente paradossale e scherzosa, ci permettono di capire e insieme apprezzare il suo personalissimo modo di confrontarsi col Gottardo e col mito.

Scomparso o quasi dalla memoria letteraria, Spitteler è ancora presente nella memoria politica e sociale grazie al discorso sulla neutralità “Il nostro punto di vista svizzero”. Il Gottardo come simbolo, infatti, ha fornito a Spitteler una lucida e penetrante chiave di lettura di uno dei momenti più difficili della storia elvetica della prima metà del secolo scorso.

Per capire l’importanza e l’attualità del discorso di Spitteler sulla neutralità è tuttavia necessaria una premessa. Alla base di tutte le nazioni e in senso più ampio di tutti i popoli c’è un mito fondativo, che a sua volta affonda le proprie radici in un passato remoto e nebuloso e non sempre corrisponde al vero, o per meglio dire non corrisponde al concetto di “verità” al quale siamo ormai abituati in quanto figli o nipoti dell’illuminismo e del positivismo. Tutto questo significa che la vita delle collettività, e in definitiva anche dei singoli individui, si radica in una dimensione prerazionale e prelogica che talora assume le connotazioni del sogno, della saga, della leggenda. Del “mito”, appunto, inteso come “racconto” e “narrazione” che non obbedisce alle regole della logica e della verosimiglianza. La Svizzera non sfugge a questa regola e anzi la conferma in maniera molto evidente.

Spitteler lo aveva ben chiaro quando, nel dicembre del 1914, tenne il proprio discorso nella sala della “Nuova società elvetica” di Zurigo. Lo scoppio del primo conflitto mondiale aveva avuto profonde ripercussioni anche all’interno dei confini elvetici, fomentando incomprensioni e dissapori tra l’etnia di lingua tedesca e quella di lingua francese. Spitteler ritenne necessario prendere la parola e ribadire l’unità della Confederazione elvetica proprio partendo più o meno esplicitamente dal mito fondativo del Gottardo, inteso e soprattutto vissuto quale punto di unione e di contatto.

Il Gottardo come simbolo, dunque, come emblema, nel senso della reciproca comprensione interna e dell’apertura verso l’esterno. Questo, secondo Spitteler, doveva essere il compito storico e morale della Svizzera, che ai suoi occhi coincideva col senso più profondo della sua esistenza come “Willensnation” e della sua neutralità (gli esponenti del “patriottismo critico”, nel secondo dopoguerra, svolgeranno più o meno le medesime considerazioni, ma in maniera rabbiosa ed esacerbata). Le considerazioni di Spitteler contengono poi un’altra verità, troppo spesso colpevolmente trascurata o perfino negletta: i miti fondativi, in quanto tali e intesi come “Lebenslügen”, e cioè con la loro inevitabile percentuale di menzogna e invenzione/reinvenzione, non posseggono necessariamente una funzione regressiva e reazionaria.

Basti un esempio per tutti: un paio di decenni dopo il discorso sulla neutralità, quando incombeva un secondo conflitto mondiale che si sarebbe risolto in un’immane carneficina e la piccola Svizzera era circondata dai fascismi dei grandi Stati europei, la saga di Guglielmo Tell eroe e baluardo della libertà e il mito del Gottardo quale autentico cuore dell’Europa furono non a caso molto utili per cementare e consolidare l’unità e l’identità nazionale. Lo riconobbe anche uno svizzero non propriamente allineato e disposto al compromesso come Dürrenmatt, il che è tutto dire. Poi i miti fondativi possono anche essere ideologizzati e strumentalizzati, possono perfino diventare aggressivi e pericolosi, oppure anestetizzanti. Ma questa, va da sé, è tutta un’altra storia.

«Parliamo più sottovoce possibile delle patriottiche fantasie secondo le quali la Svizzera avrebbe una missione da compiere come stato modello o stato arbitrale. Prima di servire da modello per altri popoli, noi dovremmo risolvere i nostri problemi interni in modo esemplare». Sono parole vecchie di un secolo, ma sembrano provenire da un presente che di fatto è già un futuro, più o meno prossimo. Carl Spitteler è stato il primo a sostenere la necessità di valutare e declinare la neutralità sempre in modo dialettico, mettendola continuamente alla prova: solo in questo modo, considerandola e praticandola alla stregua di una tattica politica virtuosa e assolutamente legittima, ma passibile di modifiche e migliorie, la neutralità stessa può evitare di ridursi a una condizione acriticamente data una volta per tutte, e non meno acriticamente accettata.

E’ giusto insomma celebrarlo, come si è fatto nel 2019, in occasione del centenario del conferimento del premio, quale primo (e finora unico) Nobel svizzero per la letteratura. Ma l’eredità più autentica di Carl Spitteler -che si presta ben poco alla retorica dei discorsi ufficiali- è un’altra, ed è forse tutta racchiusa nel monito che chiude il suo discorso sulla neutralità e ci giunge, oggi più che mai, da un vicinissima e palpitante lontananza: «Cosa facciamo quando passa un funerale? Ci leviamo il cappello. Cosa facciamo quando una tragedia, a teatro, ci riempie l’animo di commozione? Ci raccogliamo in un grave e profondo silenzio. Ed ecco che un capriccio del destino ci ha messo tra gli spettatori, mentre sulla scena europea si svolge la tragedia. Da ogni parte si odono singhiozzi di dolore e tutti, a destra e a sinistra, hanno lo stesso suono e non c’è differenza di lingua. Di fronte all’immensità di tanto dolore fasciamo le nostre anime di raccoglimento e leviamoci il cappello. Ecco la nostra vera neutralità».

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