Letteratura

Domande senza età (e senza soluzione)

Quando Dino Buzzati rispose ai “perché” dei piccoli lettori

  • 16.12.2024, 13:42
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Di: Mattia Mantovani  

L’infanzia è «l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare», ha osservato giustamente Ennio Flaiano negli appunti per la sceneggiatura di un film – Il bambino o Il bambino cattivo, poi mai realizzato – sulla propria infanzia e nello specifico su periodo piuttosto movimentato trascorso a Brescia nel 1922, all’età di dodici anni. Lo stesso Flaiano ha poi ribadito e ampliato il concetto, affermando che le cinque o sei cose decisive di una vita umana si svolgono nell’infanzia e nell’adolescenza, e che in ultima analisi tutto quanto viene “dopo” serve soltanto a «fare volume» e a fornire l’illusione che tutte le casualità e le contingenze di una vita si uniscano a comporre una cosiddetta biografia coerente e lineare. Max Frisch, da parte sua, ha costruito un’intera poetica (la cosiddetta “drammaturgia della casualità”) sul carattere meramente ipotetico e fungibile della biografia e sulle storie “indossate come abiti”.

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A casa di Dino Buzzati

RSI Archivi 28.03.1968, 15:48

Si potrebbe forse aggiungere che tutto quanto viene “dopo” serve anche a fornire l’illusione di aver trovato una risposta alle domande che sorgono spontanee nel momento in cui si prende coscienza di essere al mondo. Lo sapeva molto bene un puer aeternus come Dino Buzzati, la cui opera narrativa è un tentativo non già di trovare risposte, ma piuttosto di riproporre le domande in molteplici variazioni che vanno dalla crudezza del resoconto di cronaca all’aneddoto, dalla reinvenzione letteraria del romanzo e del racconto all’apologo nel quale si mischiano realtà, favola e allegoria.

Tutto, in Buzzati, è un continuo ritorno all’infanzia e alle sue domande, al luogo che non è possibile abbandonare, alla sua porosità, se così la si può definire, a quelle proiezioni immaginative e quegli incantamenti che vanno fatalmente perduti con l’avanzare dell’età. Operando una variazione sul titolo di una sua celebre raccolta di apologhi e brevi racconti, si può affermare che è proprio “in quel preciso momento”, quando alla porosità dell’infanzia si sostituisce la compatta prosaicità della vita adulta, con la realtà effettuale che prende il posto della fantasia e dell’immaginazione, che si comincia forse a vivere, sicuramente si comincia a morire.

Ci sono stati tre momenti nei quali Buzzati, come scrittore, è tornato in maniera concreta e diretta all’infanzia, rivolgendosi espressamente ai lettori più giovani. La prima volta fu nel 1935, col racconto Il segreto del Bosco Vecchio, dove si parla di un mondo “altro” nel quale tutti gli elementi della natura hanno il dono della parola (una caratteristica, quest’ultima, che tornerà poi in molti suoi racconti pensati per i lettori adulti). La seconda volta fu invece dieci anni dopo, alla fine della guerra, quando scrisse e illustrò per le piccole nipoti Lalla e Puppa la lunga favola dal titolo La famosa invasione degli orsi in Sicilia, storia di una colonia di orsi che scende dalle montagne in cerca di cibo e conquista la Sicilia dopo aver sconfitto dapprima il temibile esercito del Granduca (che ha rapito il figlio del loro re Leonzio), poi i cinghiali volanti trasformati in palloni aerostatici e infine il Serpente dei Mari e il ferocissimo Gatto Mammone (due figure che compaiono in varie forme anche nella narrativa per adulti e nella pittura di Buzzati).

Ma una volta arrivati al potere, un po’ come accade ai maiali de La fattoria degli animali di George Orwell, anche gli orsi assorbono le peggiori abitudini degli umani e diventano violenti, gretti, corrotti ed egoisti, tra congiure di palazzo, ruberie, sopraffazioni e una davvero profetica rapina alla Grande Banca Universale, che segna il termine del loro dominio e li costringe a tornare in lunghissime file alle montagne, dove ritrovano l’unica quiete che sia loro concessa, in mezzo alla natura intatta e primordiale.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia, prima di uscire in volume, fu pubblicata in parte sulle pagine del Corriere dei Piccoli, che era una specie di Corriere della Sera pensato per i lettori più giovani e ospitava tra l’altro (l’elenco completo sarebbe pressoché interminabile) i celeberrimi fumetti del Signor Bonaventura di Sergio Tofano, che alla fine di ogni avventura riceveva sempre la ricompensa di un milione di Lire, e le mirabolanti vicende dello scienziato Pier Cloruro de’ Lambicchi, inventore dell’“Arcivernice”, una sostanza magica che dava vita ai personaggi raffigurati nei dipinti.

Come nel caso de Il segreto del Bosco Vecchio, anche La famosa invasione degli orsi in Sicilia si rivolge principalmente ai lettori più piccoli, ma nel suo complesso si presenta come una favola che esprime le verità più profonde della condizione umana e quindi, come scrisse nel 1948 la rivista Life in occasione della traduzione in lingua inglese, costituisce «una meravigliosa lettura per tutte le età». Lo stesso discorso vale per la terza incursione dello scrittore Buzzati nell’unico luogo che non riusciamo ad abbondonare. Un quarto di secolo dopo La famosa invasione degli orsi in Sicilia, sempre dalle colonne del Corriere dei Piccoli, Buzzati tornò infatti a rivolgersi ai lettori più giovani, ma questa volta lo fece in una forma assolutamente nuova e originale, non come narratore ma come interlocutore e confidente.

Tra il marzo 1968 e l’aprile 1969, in quella specie di giornale nel giornale che fu il Corrierino Informazione, un inserto del Corriere dei Piccoli che ospitava notizie, commenti e articoli di famosi giornalisti e scrittori, Buzzati rispose alle lettere dei giovanissimi lettori in un rubrica intitolata I “Perché” di Dino Buzzati. Le risposte, ventidue in totale, sono state in seguito raccolte in un volume dal titolo I “Perché” di Dino Buzzati – Le risposte alle lettere dei bambini sul “Corriere dei Piccoli”.

Come tutti i grandi scrittori, Buzzati è sempre grande, anche quando si rivolge ai piccoli interlocutori in maniera semplice e diretta. I “Perché” merita quindi di essere annoverato tra il meglio uscito dalla sua penna, non lontano dai grandi romanzi, dai racconti e dagli scritti giornalistici che hanno fatto epoca. Le questioni poste dai giovanissimi lettori sono infatti tutt’altro che infantili, e le risposte fornite dal grande scrittore possono essere considerate una sorta di cristallizzazione e compendio dei temi che Buzzati ha svolto nelle opere maggiori.

Non mancano alcune vicende particolarmente tragiche di quel preciso periodo storico, l’assassinio di Bob Kennedy e quello di Martin Luther King, i movimenti di emancipazione dei neri, la guerra del Vietnam e lo scontro ideologico tra le superpotenze, ma per la maggior parte le domande dei giovani lettori vertono intorno ai temi di fondo della vita (il bene e il male, il coraggio e la virtù, il passare del tempo, il dubbio, l’attesa, il vago timore della vita adulta con le sue responsabilità), ad alcuni fenomeni tipici della società industriale (il traffico, l’inquinamento, l’alienazione urbana) e infine alla difesa dei più deboli, con alcune bellissime domande – e splendide risposte – incentrate sulla difesa dei diritti degli animali contro l’assurda e immonda crudeltà degli esseri umani.

Dino Buzzati era del resto un grande amico degli animali: aveva una particolare predilezione per i cani, più nello specifico per i bulldog, che sono presenti un po’ ovunque nella sua opera letteraria e pittorica, assumendo spesso connotazioni antropomorfe. C’è inoltre una leggenda – sicuramente un po’ sceneggiata, ma non priva di una base reale – secondo la quale lo stesso Buzzati, che abitava a Milano nella zona di Porta Venezia, vicino al vecchio zoo, diceva di sentire i lamenti degli animali durante la notte, andava spesso a trovarli, si fermava davanti alla gabbia dell’orso e della leonessa e parlava con loro. Si spiega quindi la risposta al giovane lettore che lo rimprovera di mettere sullo stesso piano uomini e animali: «D’accordo che l’uomo è il re del creato, d’accordo che le bestie è probabile che non posseggano la coscienza che in proporzioni minime rispetto alla nostra. Ma la loro sofferenza… No, non fa differenza con la nostra, per lo meno tutto ciò che vediamo e udiamo lo fa credere».

La domanda di un altro giovane lettore, che confessa tutte le proprie paure e incertezze, gli permette di operare una simpatica ma fondamentale variazione sul brechtiano “elogio del dubbio”, elevato a principio conoscitivo e approccio alla realtà: «Il vero segno dell’intelligenza è il dubbio. Perché solo i cretini sono sicuri di avere sempre ragione e di sapere tutto. E questo genere di cretini è anche molto pericoloso: gli uomini più nefasti, quelli che hanno combinato più guai e insanguinato di più il mondo, erano sempre convintissimi di possedere loro soltanto la verità e la giustizia, e perciò si sentivano autorizzati ad imporre la loro volontà a tutti gli altri, a costo anche di stragi e prepotenze».

Alcuni anni prima, nel lungo racconto a cornice Viaggio agli inferni del secolo (una sorta di spedizione nelle viscere di Milano, in un inferno del tutto simile alla vita quotidiana), Buzzati si era soffermato sull’abbruttimento causato dai ritmi di vita nelle grandi metropoli del progresso e gli aveva dedicato un segmento narrativo dal titolo piuttosto inequivocabile: Belva al volante. Il tema, ripreso in chiave solo apparentemente minore e più leggera, torna nella risposta al giovane lettore che gli chiede perché l’essere umano, quando guida l’automobile, si trasforma in una “tigre”: «Certi sostengono che tutto dipende dalla vita affannosa che conduciamo nelle città, per cui il sistema nervoso è sempre sovreccitato e basta un niente a farlo esplodere. Spiegazione valida, io credo, ma solo in parte. Il fatto è che, con un’automobile nelle mani, l’uomo veramente si trasforma. Dalle profondità del suo essere riemerge impetuoso l’istinto brutale dell’uomo delle caverne, la smania di imporsi al prossimo, l’intolleranza per ogni intralcio o fastidio. Mi domando se non succedesse lo stesso, anticamente, a chi indossava la corazza e girava armato fino ai denti, a chi montava un superbo destriero».

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Dino Buzzati, con Silvia Zangrandi

Archivi RSI 07.07.2019, 12:35

L’elogio del dubbio si unisce qui a un profondo pessimismo sulla natura umana, che in sostanza costituisce la credenziale dell’intera proposta poetica di Buzzati, ma una volta tanto i temi cupi e spesso ossessivi si stemperano nel divertimento e nell’ironia: «Allora l’uomo disponeva di un cavallo solo, adesso di diciassette in una volta sola, anche se possiede appena una modesta 500. Ma sono trecento i cavalli che obbediscono al proprietario di una Ferrari, come se egli comandasse un reggimento di cavalleria; figurarsi se non si sente importante, se si lascia impunemente torcere un capello».

Un altro giovane lettore gli chiede per quale motivo, «nel mondo di progressi nel quale viviamo, la ragione debba essere quella del più forte». Buzzati risponde variando una suggestione già presente nel realismo fantastico di Fiaba di Natale, un racconto per immagini apparso su L’Europeo il 26 dicembre 1954, con ogni probabilità il più bello dei suoi scritti natalizi. Questo è l’uomo, dice rivolgendosi al giovane lettore, questa è la sua natura melmosa e fanghigliosa, che non cambierà mai, malgrado tutte le “magnifiche sorti”: «L’uomo, se ha fatto dei progressi innegabili dal tempo in cui vive nelle caverne, tuttavia è rimasto pur sempre, nella stragrande maggioranza, un terribile egoista. Se la sua ambizione, la sua sete di godimenti, di ricchezza o di potere incontrano degli ostacoli, ancora oggi non guarda per il sottile. E fa valere la sua forza, che può essere fatta di soldi, di prestigio sociale, di autorità professionale, non preoccupandosi più di tanto se così facendo offende la giustizia e procura male al prossimo».

Nel racconto natalizio, invece, lo stesso tema era stato svolto innescando per così dire un corto circuito col Natale, una festa della quale Buzzati con ogni probabilità non condivideva fino in fondo la dimensione religiosa e senza dubbio rifiutava nei suoi aspetti deteriori, legati al consumismo nonché alla stucchevole retorica dei buoni sentimenti, della felicità a tutti i costi e contro ogni evidenza. Il Diavolo, seriamente preoccupato per la diffusione della bontà e dell’amore per il prossimo, con gli usurai che infilano banconote nelle tasche dei passanti, gli industriali che distribuiscono equamente i profitti e perfino i medici che  professano gratuitamente e «dicono un gran bene dei loro colleghi», chiede lumi al proprio segretario, che però lo tranquillizza immediatamente sulla durata della messinscena. Questione di qualche ora, niente di più, poi riprenderanno le consuete carognate, la solita cattiveria, la legge del più forte, l’eterno baraccone e l’eterna e miseranda corsa dietro il vento: «Su bello con la vita, Eccellenza! / Che diamine, un po’ di pazienza! / Domani stesso, rima o non rima, / Vedrai che tutto torna come prima».  

Ma la risposta più bella e per molti versi maggiormente “buzzatiana”, una risposta che ha il sapore di un apologo e insieme di un congedo (lo scrittore morirà meno di quattro anni dopo, nel gennaio 1972), è quella che Buzzati fornisce a una giovanissima lettrice di Vicenza, che gli chiede: «Perché i grandi non chiedono mai “perché”?». E’ una risposta davvero straordinaria, che fa pensare al “Che pena, gli uomini” de Il Sogno di Strindberg: «A chi i grandi possono chiedere la spiegazione dei loro inquietanti perché?”», si chiede a sua volta Buzzati, e poi risponde: «Ecco la verità. Quando si è diventati grandi e veniamo assaliti dai grandi enigmi, non ci resta che chiedere perché a noi stessi, nel silenzio della notte, segretamente, senza dire parola. Sono i momenti difficili della vita, che toccano a chiunque. Avere studiato bene a scuola, avere diplomi e lauree, allora serve a ben poco». Forse, l’infanzia come condizione dell’anima è davvero l’unico luogo al quale facciamo continuamente ritorno. Per un semplice motivo: in fondo, ci dice Buzzati, non lo abbiamo mai lasciato.

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