Letteratura

Goethe in Svizzera

La salvezza nella metamorfosi

  • 29 novembre 2023, 10:31
Goethe sul Gottardo
Di: Mattia Mantovani

Operando una variazione su un suo celebre verso, contenuto nella prima parte del Faust, si potrebbe affermare che nel caso di Goethe e la Svizzera “in principio” non ci sono né il Verbo, né l’Azione. “In principio” ci sono invece I dolori del giovane Werther, un libro bellissimo -ma anche molto pericoloso- che “l’enfant du siècle” Johann Wolfgang, fautore dello Sturm und Drang e di tutte le istanze (poi sostanzialmente rinnegate) del nascente romanticismo, diede alle stampe a venticinque anni, nel 1774, andando a toccare fin troppo profondamente le corde della gioventù europea dell’epoca.

Un lettore di spicco come Thomas Mann ha circoscritto con una metafora molto indovinata l’effetto dirompente provocato dal libro: «Un travolgente successo che superò ogni confine, facendo letteralmente impazzare il mondo per voluttà di morte. Il romanzo determinò un’ebbrezza, una febbre, un’estasi diffusa su tutta la terra abitata; ebbe insomma l’effetto di una scintilla che cada in un barile di polvere e liberi, allargandosi all’improvviso, una pericolosa massa di forze». Il romanzo innescò infatti un processo di emulazione che si tradusse non solo nel cosiddetto “wertherismo”, che fu una moda -oggi diremmo forse un “trend”- nel senso proprio del termine (molti giovani si abbigliavano come il protagonista, con la marsina azzurra e il panciotto e i pantaloni gialli), ma anche in una sconcertante e in fondo incomprensibile serie di suicidi, perché l’opera rimaneva pur sempre una creazione poetica e non un trattato a favore del suicidio.

Lo stesso Goethe -che pure aveva la tendenza a sceneggiare e rimodellare talune vicende della propria vita, ma in questa circostanza bisogna prestargli fede- ne rimase profondamente stupito e non mancò di esprimere una certa inquietudine: «Io mi sentivo come dopo una confessione generale, di nuovo allegro e libero e autorizzato a una vita nuova. Mi sentivo alleggerito e illuminato per aver tramutato la realtà in poesia. Invece i miei amici si confusero, credendo di dover tramutare la poesia in realtà, imitare un tale romanzo e spararsi…». Circa quindici anni dopo, con la giusta distanza critica e quel sottile cinismo che si può forse perdonare soltanto ai grandissimi, Goethe trovò perfino il modo di celiare sull’intera vicenda. Lo fece in uno degli Epigrammi veneziani, qui nella traduzione di Benedetto Croce: «Germania mi imitò e leggermi volle la Francia. / Inghilterra! Accogli l’ospite folle, amica. / Ma che cosa a me vale ch’ormai persino il Cinese / pinga minuzioso Lotte e Werther su vetro?».

Ma a suo tempo le reazioni suscitate dal romanzo avevano prodotto una situazione oggettivamente complicata e rischiosa. Bastano alcuni esempi per darne l’idea: la facoltà di teologia di Lipsia, città dove il Werther era stato pubblicato, ne proibì la vendita; a Francoforte, città natale di Goethe, un provvedimento piuttosto fantasioso vietò la pubblicazione di tutte le recensioni favorevoli; il pastore di Amburgo Johann Melchior Goeze, una sorta di Savonarola in versione luterana, che alcuni anni prima aveva letteralmente ricoperto di improperi le opere teatrali di Lessing (in particolare Emilia Galotti, non a caso il “livre de chevet del giovane Werther), parlò apertamente di uno scritto “immondo e immorale”, mentre la facoltà di teologia di Copenaghen impedì la pubblicazione della traduzione danese.

Qualche anno dopo, infine, l’arcivescovo di Milano Giuseppe Pozzobonelli fece togliere dal mercato tutte le copie della prima traduzione italiana, curata da un certo Gaetano Grassi (che tra l’altro aveva lavorato su una traduzione francese) e apparsa nel 1782 a Poschiavo per i tipi del barone Franz Thomas von Bassus con un titolo involontariamente esilarante: Werther. Opera di sentimento del dottor Goethe celebre scrittore tedesco, tradotta da Gaetano Grassi milanese, con l’aggiunta di un’apologia in favore dell’opera medesima. L’occhiuto Pozzobonelli ricorse peraltro a una strategia piuttosto bizzarra ma di estrema efficacia: ordinò agli ecclesiastici dell’arcidiocesi di acquistare e poi bruciare tutte le copie. L’ordine fu infatti scrupolosamente eseguito, perché del Werther tradotto da Grassi non esiste un solo esemplare nelle biblioteche italiane (l’unica copia conservata si trova nella Biblioteca Cantonale di Coira).

La culla di Werther (2. episodio)

RSI Cultura 06.01.2020, 09:44

Per sfuggire e sottrarsi a una nomea che con ogni probabilità lo avrebbe perseguitato tutta la vita, il giovane Goethe adottò una tattica molto scaltra: trovò una sistemazione sicura presso i munifici e longanimi granduchi di Weimar, nella regione della Turingia, lasciò che le polemiche maggiormente infuocate andassero via via stemperandosi -la regola anglosassone del “Nine-days wonder” non conosce eccezioni- e poi cambiò immediatamente aria, si mise in viaggio e cominciò a lavorare a una versione più edulcorata del romanzo (soprattutto sul piano stilistico), che uscì nel 1787 a Lipsia come primo volume delle Opere complete.

A differenza di Flaubert con Madame Bovary, nel caso dello sfingeo e spesso enigmatico Goethe sarebbe forse esagerato affermare “Werther c’est moi”, ma è fuori di dubbio che in quel preciso frangente, nella Germania dei particolarismi e in un clima culturale che Heinrich Heine sintetizzerà poi nell’espressione “miseria tedesca”, la fuga e la lontananza costituivano l’unica scelta seriamente e realisticamente percorribile. Il grande itinerario nella tanto sospirata Italia - autentica Sehnsuchtsland di Goethe fin dai tempi della prima giovinezza- verrà dopo, nella seconda metà degli anni Ottanta, mentre l’immediata salvezza da se stesso e dal Werther Goethe la cercò in Svizzera con due lunghi viaggi, il primo nel 1775 e il secondo nel 1779.

Gli itinerari dei due viaggi sono differenti, ma identico è l’approdo. Nel 1775, il “fuggitivo” Goethe entra in Svizzera da Basilea e prende subito la direzione di Zurigo, mentre nel 1779, sempre entrando da Basilea, compie un giro molto più lungo, che comprende anche Berna e tutto l’arco lemanico. E’ interessante notare come la meta di entrambi i viaggi sia la Svizzera centrale col suo luogo simbolico, il massiccio del San Gottardo. Questa dimensione della salvezza in una sorta di totale alterità, ma paradossalmente non priva di tratti familiari, appare molto evidente nelle lettere indirizzate alla corte di Weimar e più nello specifico a Charlotte von Stein, alla quale Goethe era legato da una profondissima quanto sorvegliata “amitié amoureuse”. Alcuni anni dopo verranno raccolte in un volume, Briefe aus der Schweiz (Lettere dalla Svizzera), che in sostanza costituisce il diario dei due viaggi.

E’ molto rivelatrice, in particolare, una lettera del secondo viaggio, datata 13 novembre 1779, dalla vetta del massiccio montuoso, che riprende e amplia temi e suggestioni del primo viaggio: «Infine siamo felicemente arrivati alla meta e al culmine del nostro viaggio! Ci fermeremo qui, e poi faremo ritorno in patria. Mi sembra molto strano trovarmi di nuovo quassù, tra le cime, dove già quattro anni orsono mi ero fermato per alcuni giorni, in un’altra stagione dell’anno, con altri pensieri, altri convincimenti, altri progetti e speranze, e senza nulla presagire del mio futuro avevo voltato le spalle all’Italia, andando incontro a quello che adesso avverto come il mio destino. L’aria quassù è purissima, e il freddo è intenso».

16.12.16 Johann Wolfgang Goethe: Sul Gottardo

Blu come un'arancia 16.12.2016, 19:20

“Forma e trasformazione, eterno gioco della mente eterna”, dice un altro celebre verso del Faust. E’ precisamente tra le nevi del Gottardo che il personaggio di Werther, vale a dire il giovane Goethe, “muore” idealmente nella realtà e si salva nella poesia. Werther distrugge se stesso contro la realtà, “muore” per morire, mentre Goethe, attraverso il personaggio di Werther, “muore” per diventare. Ecco perché i motivi e talune suggestioni del Goethe successivo sono già tutti contenuti nei due viaggi del 1775 e 1779.

Basti pensare, solo per fare un esempio (ma si potrebbe citare anche l’idea del granito come Urgestein, “pietra originaria”), alla splendida scena dell’alba che apre la seconda parte del Faust: «Ti saluto, eterno crepuscolo. Il mondo già si sprigiona dai vapori da cui era ancora avvolto; la foresta freme di una vita molteplice e sonora; la nebbia ora s’innalza in leggere nubi dalla valle, ora vi si stende sopra in flutti ondeggianti». Un confronto con le Lettere dalla Svizzera permette di dedurre che la scena è ambientata sul massiccio del Gottardo.

Non bisogna inoltre dimenticare la celeberrima Canzone di Mignon, che compare per la prima volta ne La vocazione teatrale e viene poi ripresa ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister. Si è soliti pensare, infatti, che la Canzone di Mignon (“Kennst du das Land?”) sia il “momento italiano” per eccellenza di Goethe, ricreato e rimodellato nella figurazione artistica. Il che è vero se ci si limita (come si fa di solito) ai primi due versi, o al massimo si prosegue fino al termine della prima strofa: «Conosci la terra dei limoni in fiore, / dove le arance d’oro splendono tra le foglie scure, / dal cielo azzurro spira un mite vento, / quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso, / la conosci, forse? / Laggiù, laggiù io / andare vorrei con te, o amato mio!».

Ma la verità è un’altra. I molti turisti tedeschi che tuttora si recano sul Lago Maggiore per recitare la canzone di Mignon al cospetto delle Isole Borromee -perché la ragazza Mignon del Wilhelm Meister proviene da quelle contrade- sono probabilmente all’oscuro di due circostanze dirimenti: in primo luogo, Goethe compose la canzone prima del viaggio in Italia; in secondo luogo, lo stesso Goethe non è mai stato sul Lago Maggiore e non ha mai visto le Isole Borromee. O meglio, le ha viste per così dire con gli occhi altrui, grazie al racconto di un frate cappuccino, Padre Serafino, incontrato nel 1775 all’Ospizio del Gottardo. Il cappuccino era appena tornato da Milano e aveva raccontato al forestiero tutte le meraviglie che si potevano ammirare nel corso del viaggio. Inutile aggiungere che la fantasia del giovane Goethe si era messa subito all’opera.

La Canzone di Mignon è piuttosto il “momento svizzero” per eccellenza di Goethe, ma per capirlo bisogna arrivare fino ai versi dell’ultima strofa. Anche in questo caso, un raffronto con le Lettere dalla Svizzera (soprattutto le pagine relative al Ponte del Diavolo e al tratto da Hospental all’Ospizio) mostra con ogni evidenza che il paesaggio evocato e descritto è quello del Gottardo: «Conosci il monte e il suo sentiero tra le nubi? / Cerca la strada da seguire il mulo nella nebbia, / in spelonche l’antica stirpe dei draghi dimora, / precipita la rupe e i fiotti d’acqua sopra. / Lo conosci forse? / Laggiù, laggiù è la via / che noi faremo».

Il San Gottardo degli scrittori

Laser 18.06.2021, 09:00

  • editore.ch

Il principio, poi teorizzato nell’autobiografia Poesia e verità, è quello del ritmo sistolico/diastolico, restituito anche con l’idea della continua metamorfosi («Muori e diventa», come dice un verso del Divano occidentale-orientale) e non da ultimo con la metafora di Einatmen e Ausatmen, “inspirazione” ed “espirazione”. Sulla vetta del Gottardo, prima nel 1775 e poi nel freddo novembre del 1779, il trentenne Goethe muore e diventa, “espira” la vita che ha vissuto fino a quel momento e “inspira” una nuova vita.

Nel computo dei viaggi svizzeri si ha la tendenza ad omettere il tratto elvetico durante il viaggio di ritorno dall’Italia, nella tarda primavera 1788, a bordo del Lindauer Postbote, la leggendaria diligenza che collegava Milano a Lindau sul Lago Bodanico. Anche in questo caso, una lettura attenta del Faust permette di individuare molte parti nelle quali è abbastanza facile riconoscere paesaggi e scenari della Viamala e della Domigliasca. Manca il Gottardo, è vero, ma sarà l’assoluto protagonista del quarto e ultimo viaggio, da fine settembre al tardo ottobre 1797.

Il quasi cinquantenne Goethe è ospite dell’amico e storico dell’arte Hans Heinrich Meyer a Stäfa, sul lago di Zurigo. La vicinanza della Svizzera primitiva e del massiccio del Gottardo risveglia ricordi mai sopiti: un’«incredibile nostalgia» (così la definirà negli Annali del 1804) lo spinge a salire per la terza volta fino all’Ospizio percorrendo la Valle di Uri, non prima di aver visitato Einsiedeln e ammirato per la terza volta Svitto, la sua piana e i due Mythen. Scriverà circa tre decenni dopo, negli appunti parzialmente confluiti in Poesia e verità: «Mi era vivissima l’impressione prodotta su di me da questi luoghi vent’anni prima. I dettagli, è vero, erano sfumati, quindi provavo un singolare desiderio di rinnovarne la memoria e di correggerne l’esperienza. Ero un altro uomo, e anche gli oggetti che vedevo mi apparivano sotto una luce diversa».

I tempi del Werther sono ormai lontanissimi («ero un altro uomo»), quasi dissolti nelle nebbie di un passato che a distanza di due decenni sembra archeologico. Quando torna a Weimar, Goethe porta con sé molti materiali (pietre, minerali, testi sulla storia svizzera) e l’idea di comporre un dramma su Guglielmo Tell: una sorta di epopea dell’uomo delle Alpi, che incarna lo spirito della montagna e della libertà. Il dramma lo scriverà l’amico Friedrich Schiller, che fiuta lo “Zeitgeist” e capisce che le vicende dell’eroe svizzero potrebbero risultare molto attuali in tempi di entusiasmi rivoluzionari e aneliti alla libertà. Pubblicato nel 1804 e messo in scena proprio da Goethe al teatro di Weimar, avrà infatti un enorme successo e fonderà il moderno mito di Guglielmo Tell.

Ma anche questa, non meno di quella di Mignon, è una storia poco conosciuta e in fondo stranissima: perché Schiller, che non è mai stato in Svizzera, si limita sostanzialmente a trascrivere, inserendoli all’interno di una possente struttura drammatica, gli appunti che Goethe gli aveva messo a disposizione, con l’invito a trarne appunto un dramma. La penultima scena, in particolare, con le magnifiche descrizioni dell’Urnerloch e della conca di Orsera, corrisponde quasi totalmente agli appunti presi dallo stesso Goethe durante il viaggio. Si tratta quindi di un capolavoro con due padri, che vi hanno collaborato in modo differente ma in eguale misura.

E’ invece totalmente goethiana la paternità di Alpe Svizzera, una poesia scritta ad Altdorf il 1° ottobre 1797, prima di percorrere la Valle di Uri e salire per l’ultima volta sul Gottardo. Si tratta con ogni evidenza del punto di snodo nel quale si compie il “muori e diventa”, fissando un “prima” e un “dopo” nella sua lunga esistenza. I bellissimi versi, insieme all’importanza della Svizzera nella vita di Goethe, esprimono infatti l’addio alla giovinezza, e quindi anche al Werther, unito all’accettazione di quella che nel Faust sarà poi la “discesa alle Madri”, la vita come viaggio nel tempo e verso il nulla, il “grigiore di ogni teoria”, le cose che si perdono, l’eterno incanto e dolore della trasformazione, l’inattingibile e mortale bellezza dell’attimo che non si ferma: «Ancora ieri il tuo capo era bruno come il ricciolo dell’amata, / la cui immagine vaga mi accenna da lontano in silenzio; / ora sulla vetta s’imprime in grigio argenteo la neve precoce / che si riversò intorno alla tua cima nella bufera notturna. / Giovinezza, ahimè, è così vicina alla vecchiaia, unite dalla vita, / come un volubile sogno unisce ieri con l’oggi».

Goethe non muore

Laser 12.11.2019, 09:00

  • Keystone

Lo scrittore e saggista zurighese Adolf Muschg, che ha dedicato lunghi e approfonditi studi ai viaggi in terra elvetica dell’autore del Faust, ha affermato che in Svizzera, soprattutto nelle vicinanze del “suo” Gottardo, Goethe è diventato «grandissimo tra i grandissimi», perché ha «imparato la vita», intendendo per “vita” quella che lo stesso Goethe ha poi definito “prosa del mondo” o “prosa della realtà”. Grandissimo tra i grandissimi: è indubitabilmente vero, perché è anche leggendo i versi di Alpe svizzera che si può comprendere e sottoscrivere l’affermazione di un altro lettore di spicco come Carlo Levi, che in una lettera inviata dal carcere di Torino alla sorella Luisa, prima di essere mandato al confino in Lucania, aveva scritto: «Se mi chiedessero di scegliere come compagno un solo scrittore, credo che Goethe sarebbe il prescelto. Nelle sue opere c’è davvero una certa eterna storia ideale, che è nostra e di tutti».
 

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