Letteratura

L’onda coreana continua con la K-Lit

Dopo il K-pop, la K-beauty, i K-drama e i film da Oscar, non poteva non arrivare anche la letteratura sudcoreana, travolta dalla corrente della Hallyu, la cosiddetta “onda coreana”

  • Ieri, 17:00
k-lit, letteratura coreana
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Di: Virginia Antoniucci 

I romanzi sono arrivati inizialmente in sordina sugli scaffali delle librerie, ma sono esplosi con la consacrazione di Han Kang con il Premio Nobel e all’endorsement dei BTS per Kim Jiyoung, nata nel 1982, suggerendo l’emergere di una forma narrativa riconoscibile, definita K-Lit.

Il termine K-Lit si riferisce, per comodità, alla narrativa sudcoreana contemporanea tradotta negli ultimi 15-20 anni. Non è un genere in senso stretto, ma un insieme di testi che condividono alcune caratteristiche comuni: uno stile asciutto, un forte radicamento urbano e personaggi che non sono mai davvero al centro del mondo. Si tratta di una narrativa che racconta esistenze minime, spesso destinate a scontrarsi con forze più grandi di loro. Un tono sobrio, ma mai neutro; un’indagine esistenziale che non perde mai di vista il contesto sociale. E, soprattutto, una netta prevalenza di autrici.

La frattura femminile

Il successo globale è legato in modo diretto alla scrittura femminile. Han Kang, Cho Nam-joo, Kim Hye-jin, Jeong Yu-jeong: sono loro a tracciare l’orizzonte tematico di questa narrativa, e a far emergere, in filigrana, una frattura che attraversa la Corea del Sud contemporanea. Le loro protagoniste, spesso impiegate precarie, figlie invisibili, madri disilluse, sono costrette a confrontarsi con un modello confuciano che ancora struttura le gerarchie sociali, e con una realtà economica che ha promesso tutto, ma ha mantenuto poco. Le autrici non raccontano storie di eroiche emancipazioni, ma piuttosto di sopravvivenza. Ed è proprio in questo ritrarsi che nasce una nuova percezione della donna come punto cieco della modernità sudcoreana.

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La forma del disagio

È una narrativa che sembra fatta di piccoli gesti – un rifiuto, una sparizione, una crisi – ma che contiene una tensione sistemica, appena sotto la superficie. Tre assi narrativi tornano con insistenza nei testi della K-Lit contemporanea: l’alienazione, il corpo e la classe. Le storie sudcoreane dipingono un’esistenza solitaria, anche quando si è circondati da altri. Lavoro, famiglia, scuola: ogni istituzione sembra una macchina disfunzionale che genera frattura e frustrazione. Il corpo, a sua volta, diventa un campo di resistenza silenziosa. E dietro a tutto questo c’è la questione di classe, che si fa sentire nei dettagli quotidiani – case troppo piccole, contratti precari, pranzi saltati, la costante incertezza del futuro. Un esempio paradigmatico di questo meccanismo è La vegetariana di Han Kang. La protagonista, rifiutando la carne, compie un gesto privato che, però, non resta confinato a livello individuale. Il corpo che rifiuta la norma diventa subito un problema collettivo, una crepa nel sistema. E come spesso succede nella K-Lit, quella che sembra una storia individuale finisce per rivelare una diagnosi sociale.

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K-Lit e J-Lit

È comune paragonare questa nuova onda coreana alla J-Lit, la narrativa giapponese che negli anni Duemila ha conquistato il mondo con autori come Murakami, Yoshimoto, Kirino. Le somiglianze esistono: uno stile essenziale, personaggi alienati, un gusto per il ritmo lento. Ma il modo in cui questi elementi vengono usati è diverso. La narrativa giapponese più conosciuta dell’epoca si sviluppa in uno spazio onirico, dove il disagio è esistenziale e l’evasione una possibile via di salvezza, come in Norwegian Wood, dove il lutto si trasforma in un paesaggio mentale da esplorare. Anche se alcuni autori coreani adottano toni più intimisti, generalmente la K-Lit tende a rimanere ancorata alla realtà: anche quando adotta un linguaggio più emotivo, il trauma non è mai esistenziale, ma sistemico, legato alle strutture sociali ed economiche che definiscono le esistenze dei personaggi. La differenza tra le due tradizioni non è solo stilistica, ma culturale, e si riflette nelle diverse visioni della modernità e del passato.

Eppure, osservando come questi libri arrivano al pubblico italofono, la distinzione tra Corea del Sud e Giappone tende a sfumare. La grande editoria, nel tentativo di capitalizzare l’onda, ha cominciato a renderla vendibile secondo criteri estetici. Nel mercato italiano, molti libri coreani arrivano sempre più spesso vestiti con la stessa uniforme: copertine pastello, illustrazioni delicate, design minimalisti, che accomunano altri romanzi di origine asiatica. Il risultato è un’immagine indistinta e stereotipata, dove Giappone e Corea del Sud sembrano fusi in un’unica idea di Oriente riconoscibile e vendibile.

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Il rischio del feticcio

Il suo successo non dipende solo dalle strategie di marketing editoriale, ma piuttosto dalla spinta globale della cultura sudcoreana, alimentata dal fenomeno del K-pop e dei K-drama. Ma c’è anche una questione di tono. Mentre in molta narrativa occidentale il trauma è un arco narrativo – si soffre per arrivare a una nuova versione di sé – nei romanzi sudcoreani la trasformazione non è una liberazione, ma un adattamento. Persino nei testi più conciliativi, la guarigione non è mai assoluta, né separata dal contesto che l’ha prodotta.

Come ogni fenomeno letterario che acquista visibilità, anche la letteratura sudcoreana rischia di diventare un brand. Sebbene esistano numerose voci, filoni e generi nel panorama sudcoreano, quando si privilegiano solo quei romanzi che seguono una formula vincente per il mercato occidentale, si finisce per feticizzarla, ignorando le voci marginali e schiacciando la sua complessità politica e sociale. Ridurre la K-Lit a un singolo tono significherebbe trasformarla in uno stereotipo – un errore già visto nella ricezione delle culture asiatiche in Occidente.

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