Letteratura

Le sorelle Brontë e la scrittura femminile

Una rivoluzione a lume di candela

  • 29 maggio, 07:14
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Di: Lucrezia Greppi

«Come misurare la violenta passione del cuore di un poeta imprigionato e rinchiuso nel corpo di una donna?» - se lo chiedeva Virginia Woolf in una pagina memorabile del saggio Una stanza tutta per sé (1929), dove immagina un’ipotetica sorella di William Shakespeare, di nome Judith, dotata del medesimo talento del Bardo. La poetessa non avrebbe avuto il tempo né di «trastullarsi fra carte e libri», dovendo occuparsi delle ben più importanti faccende domestiche, né di scrivere: al massimo avrebbe scribacchiato qualche pagina, «di nascosto in soffitta», con la cura di «nasconderle o distruggerle dando loro fuoco». Se anche avesse trovato il coraggio di rifiutare un matrimonio di convenienza, fuggire dalla propria famiglia ed inseguire il suo sogno, la avrebbero derisa e zittita.

Ebbene, la storia di Judith Shakespeare, con piccole e significative variazioni, si avvererà qualche secolo più tardi, in uno sperduto villaggio dello Yorkshire, non in una ma in ben tre donne straordinarie: Anne, Emily e Charlotte Brontë. Cresciute all’ombra del fratello Branwell, quel giovane promettente i cui talenti spaziavano dalla letteratura all’arte, le tre sorelle finiranno per eclissare chi aveva la strada spianata, il brillante rampollo su cui il padre aveva riposto tutte le sue speranze. Di lui e del suo genio, col passare degli anni, non rimarrà che un flebile riflesso, come in quel ritratto di famiglia che dipinse lo stesso Branwell nel 1834, prima disegnandosi in posizione centrale e torreggiante, poi facendo di sé una figura evanescente. Cupo presagio di quel che sarebbe accaduto: l’abuso di alcool e droghe lo ridurranno a il fantasma di sé stesso.

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«Branwell era una bugia terribile dalla testa ai piedi, un sogno inutile che aveva finito per diventare un incubo», dice la Charlotte immaginata da Ángeles Caso nella sua biografia romanzata della famiglia Brontë (Tutto questo fuoco. La rivoluzione delle sorelle Brontë, Marcos y Marcos 2024). «Non riusciva a perdonarlo per la stupidità con cui aveva sprecato il suo talento e le sue occasioni»: la vita gli aveva permesso di «dispiegare le sue ali da uomo e volare lontano quanto avesse voluto» e lui «le aveva fatte a pezzi», mentre le sue sorelle, quelle ali, «erano costrette ad amputarsele e a trascinarsi dietro quel dolore». Per non ferire l’orgoglio di lui, Charlotte, Emily ed Anne erano poetesse clandestine nella loro stessa casa: se Branwell avesse letto i loro scritti, che volevano persino pubblicare, in un impeto di gelosia sarebbe stato capace di «buttare quei fogli nel fuoco». Al contrario, se l’ometto di casa avesse voluto scrivere un romanzo sarebbe stato servito e riverito, elogiato ed applaudito: lo avrebbe potuto fare alla luce del sole, nel silenzio di una stanza tutta per sé.

«Guardate noi, invece, povere donne, costrette a scrivere di nascosto, a pubblicare sotto pseudonimo, a nascondere tutto questo fuoco dentro di noi, mascherando come ladre il desiderio e la furia. Guardateci stirare, cucinare, cucire, spazzare i pavimenti, cercando di rubare minuti, secondi, alla vita che scorre veloce per poter scavare lì dentro, nella brace che arde nelle nostre teste, proprio come banditi che aspettano la notte per […] uscire per le strade a distruggere, anche se noi non distruggiamo ma creiamo, donne temerarie, donne peccatrici che rifiutano di piegarsi al silenzio».

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Ángeles Caso, a questo punto del romanzo, propone una suggestiva digressione, che riprende e sviluppa la già ricordata riflessione di Virginia Woolf: Come sarebbe stata la vita di Charlotte se fosse nata uomo? Sarebbe stata più ricca di emozioni, avventurosa, e soprattutto, avrebbe potuto essere uno «scrittore», e non «quella-povera-donna-illusa-che-osa-scrivere». E ancora, Charlotte avrebbe rinunciato a quei «pomeriggi clandestini» in compagnia delle sue sorelle per la «solitudine di uno scrittore maschio»? La risposta è secca, assolutamente no. «Forse i loro romanzi e le loro poesie non avrebbero mai raggiunto il grado sublime della perfezione» – poiché le loro energie erano dedicate primariamente «a tutte quelle piccole incombenze che ricadono sulla vita delle donne e rendono migliore la vita degli uomini» – ma dentro di loro pulsava «la vita, la forza e la fragilità della vita stessa» e questo valeva più di qualsiasi studio maschile, «isolato e silenzioso».

Anne, Emily e Charlotte Brontë ebbero tutt’altro che una vita spensierata – il cancro le privò della madre e la tubercolosi si portò via le loro sorelle Maria ed Elizabeth, quand’erano ancora bambine – ma a differenza di “Judith” avevano un rarissimo privilegio. Quello di poter leggere ciò che volevano, anche quello che non si addiceva alle pure donne vittoriane, e di seguire lezioni di disegno, musica e lingua, grazie al padre, il reverendo Patrick Brontë. Queste opportunità le resero «riflessive, isolate ed eccentriche», avendo «idee personali e passatempi pericolosi, come scrivere o camminare da sole in montagna»: donne strane e straordinarie, appassionate, libere e coraggiose. Divennero, a loro insaputa, pioniere della letteratura femminile: l’indomabile Emily osò parlare delle passioni brucianti e brutali (Cime tempestose), la tenera Anne condannò con audacia la violenza domestica (La signora di Wildfell Hall), la ribelle Charlotte ebbe l’ardire di creare personaggi femminili forti e indipendenti (Jane Eyre), proprio come lei, che non si lasciò abbattere dai pregiudizi dell’epoca. «La letteratura non si concilia con la vita di una donna»: questo le risposte il poeta Robert Southey dopo aver letto i suoi versi, e questo forse la convinse a ideare per lei e le sorelle degli pseudonimi maschili (Currer, Ellis e Acton Bell) per pubblicare le loro opere.

Anne Brontë, il bicentenario della 'sorellina'

RSI Cultura 29.01.2020, 08:00

  • Keystone

Se è vero che «alla donna è mancata non solo una stanza, ma anche una letteratura tutta per sé» e se è vero che «un libro non è un esempio di “scrittura femminile” solo perché è scritto da una donna» ma solo quando «non avrebbe potuto essere scritto da un uomo», come ritiene Rachel Cusk (Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura, Einaudi 2024) è indubbio che le sorelle Brontë fecero la storia, con i “se” e con i “ma”. Sarebbe bastato un nonnulla a impedire che queste piccole grandi donne, vestite con abiti antiquati e vissute in un villaggio ai margini del mondo, abbattessero ogni ostacolo e pregiudizio. Non potevano seguire le orme di nessuna antenata – la stessa Virginia Woolf individua in loro, insieme a Jane Austen e Mary Anne Evans, le pioniere della scrittura femminile –, così aprirono la strada alle scrittrici di oggi. Un percorso tuttora irto di insidie, individuate brillantemente da Cusk nel capitoletto intitolato Le sorelle di Shakespeare. Tra queste, la tentazione di rinunciare alla propria femminilità («quando una donna nel XXI secolo si mette a scrivere, probabilmente si sente piuttosto asessuata. Non vuole né esprimere né negare: vuole solo essere lasciata in pace»), nutrire una certa ostilità verso il concetto stesso di “scrittura femminile” («il suo è ancora il secondo sesso, ma si è guadagnata il diritto di dissociarsene») e adottare un atteggiamento moderato (la scrittrice di oggi «non osa irritare, esplorare, esplodere»). Tranelli in cui non caddero le sorelle Brontë, spiriti liberi temprati dai forti venti del nord, abituate com’erano ad andare sempre in direzione ostinata e contraria.

“Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura” di Rachel Cusk

Mirador 26.04.2024, 14:40

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