«Un Pride, che inserisce tra gli ospiti della parata una grandissima voce della poesia e della narrativa italiana, è per me da standing ovation lunga almeno 90 minuti». Così qualche settimana fa il dirigente scolastico, drammaturgo, attivista Claudio Finelli commentava, non senza una certa voluta enfasi, l’inedito coinvolgimento di un’autrice dall’eccezionale potenza intellettuale quale Maria Attanasio nella prima marcia calatina dell’orgoglio LGBT+. E proprio nel contesto della natia Caltagirone si comprende appieno l’entusiasta partecipazione della “biscrittora” – come lei stessa ama ironicamente definirsi perché poetessa e narratrice – al Pride locale. Non poteva, d’altra parte, essere diversamente, visti il legame e l’amore viscerale di Maria per la sua città che, universalmente nota per la produzione plurisecolare di ceramiche e per un altro figlio illustre come don Luigi Sturzo, è non a caso il locus per eccellenza in cui sono in larga parte ambientate le sue opere e da cui provengono molti dei suoi personaggi. Figure minori, ma realmente esistite, di cui l’autrice racconta e rilegge le storie marginalizzate e, in un certo senso, cancellate per comprendere meglio il passato, la Storia, quale paradigma del presente.
Volendo limitarsi ad alcuni dei titoli attanasiani più celebri, sono questi i casi della sospetta eretica e strega Francisca, della «tardocapopolo e protofemminista» Concetta La Ferla, del pittore omosessuale Paolo Ciulla, rispettivamente protagonisti dei ben noti romanzi Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile (Sellerio 1993), Di Concetta e le sue donne (Sellerio 1999), Il falsario di Caltagirone (Sellerio 2007). E proprio partendo dall’ultimo dei tre personaggi storici e letterari ha inizio la mia conversazione con Maria, che, formatasi alla scuola di Sebastiano Addamo ma influenzata anche dagli incontri personali con nomi dal calibro di Carlo Levi, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, è molto amata e apprezzata all’estero (nell’ottobre 2022 si è tenuto presso l’università di Valencia il primo convegno internazionale a lei dedicato, cui ha fatto seguito il volume collettaneo Maria Attanasio. Quattro decadi di bifronte scrittura disobbediente per la curatela di Giuliana Adamo e Miguel Ángel Cuevas [Castelvecchi 2023]).
Maria, nel romanzo Il falsario di Caltagirone lei racconta la vita avventurosa e drammatica del conterraneo Paolo Ciulla. Come ha vissuto il recente Pride nella sua città d’origine, la stessa da cui l’artista fu bandito a fine ‘800 con l’accusa di omosessualità?
Vorrei innanzitutto ricordare che quasi tutti i miei romanzi, microstorie di donne, sono ambientati a Caltagirone, nascendo da personaggi reali che sono qui vissuti. L’unica persona di cui ho parlato, e che donna non era, è appunto Paolo Ciulla, grande pittore e falsario schierato con il locale Partito operaio. Quando ne fu chiusa la sede, il giovane artista dovette andare via dal suo paese natale anche perché accusato, fra l’altro, di essere pederasta. Ritengo perciò il Pride di Caltagirone, cui sono stata invitata come ospite – in realtà, mi sono sentita non tale ma una di loro, che ha poi preso la parola –, profondamente significativo: un significato, il suo, di rottura con una serie di pregiudizi ambientali. Da un punto di vista strettamente personale esso è stato per me molto importante, trattandosi del secondo a cui partecipavo. In realtà, il primo non si chiamava Pride né si potrebbe così definirlo, essendo stato stanziale. Ma in quella manifestazione c’era già in nuce quanto anni dopo sarebbe stato inizialmente chiamato Gay Pride, ossia l’accettazione delle differenze e la convivenza tra le stesse. Mi riferisco alla Festa dell’orgoglio omosessuale, tenutasi a Palermo il 28 giugno 1981 presso Villa Giulia.
Che ricordi ne ha?
All’epoca militante del Pci, abitavo a Palermo: il mio ex marito era infatti sindacalista e componente della segreteria regionale della Cgil. La mattina del 28 giugno 1981 – era domenica – mi sono trovata davanti a Villa Giulia, sopra il cui ingresso principale campeggiava un grande striscione con la scritta Festa dell’orgoglio omosessuale. Appena oltrepassato il cancello, fui colpita dall’immagine di un bambino col giglio in mano, attorniato dai genitori, in posa per la fotografia di rito: quel giorno si celebravano infatti le Prime Comunioni. Ben focalizzata nella mia mente, una tale immagine si è mantenuta, per così dire, inalterata tutta la giornata. Ritornata infatti la sera con mio marito e altri compagni di partito, ho notato la presenza di altri bambini e bambine col giglio in mano: gli scatti erano continuati l’intera giornata nel parco di Villa Giulia davanti alla stessa fontana centrale, intorno alla quale erano ubicati i quattro padiglioni della Festa dell’orgoglio omosessuale. Ho poi saputo che c’era stato un confronto tra gli attivisti gay, intenzionati a mettere dei cartelli attorno alla fontana, e i parenti dei neo-comunicati in fila per le foto. Confronto, culminato in un accordo. A colpirmi sin da subito fu questa inconsapevole convivenza fatta di reciproca accettazione. Alla Festa dell’orgoglio – prima volta in cui la sinistra si avvicinava organicamente al mondo omosessuale – c’erano non solo esponenti del Pci, dell’Arci, della Cgil ma la folla del quartiere, quello popolare della Kalsa: papà, madri coi figli nelle carrozzine, bambine, che la sera ascoltavano tranquillamente i vari comizi ma soprattutto la musica gay. E poi c’è la dimensione simbolica legata al luogo e alla storia, che mi ha sempre interessato e caratterizzato la mia scrittura.
Vale a dire?
Primo giardino pubblico d’Italia realizzato negli anni ’70 del XVIII secolo e dedicato a Giulia d’Avalos, moglie dell’allora viceré di Sicilia, Villa Giulia appare sin dalle origini come destinata alla libertà, all’espressione della libertà. Essa sorge su quello che in passato era il Piano di Sant’Erasmo, in cui fino alla prima metà del ‘700 streghe o eretici venivano arsi vivi: celebre, ad esempio, il caso di fra Diego La Matina, protagonista del saggio narrativo sciasciano Morte dell’inquisitore. Persone, insomma, che avevano lottato per la libertà e continuavano talora a riaffermare le proprie idee mentre venivano bruciate in quel luogo. Il Piano di Sant’Erasmo diventa dunque il primo parco di verde pubblico: uno spazio di libertà per tutti in un tempo in cui non ce n’era, uno spazio di libertà che, secoli dopo, avrebbe ospitato la prima Festa dell’orgoglio omosessuale in Italia.
Ha prima accennato a una scrittura attenta alla storia e ai luoghi. Perché li ritiene così importanti per la sua produzione letteraria?
Bisogna partire da una premessa di fondo: la storia dei luoghi e delle persone che li abitano è a mio parere poco conosciuta. Pensiamo solitamente al passato come a qualcosa di perennemente immobile, di chiuso; pensiamo di essere noi soli i contemporanei e i pensanti. Ma non è così. Ciò detto, ritengo importante il recupero della memoria storica non già per restarne prigionieri, ma perché la storia, come diceva Vincenzo Consolo, è metafora del presente. Per me la storia è infatti gesto di presente. Per me le vicende di una donna, che nel ‘600 ha detto no alle leggi del tempo e si veste da uomo per andare a lavorare, non è una storia che riguarda quel secolo o la sola Caltagirone. È una storia che riguarda me, Maria Attanasio, e la mia genealogia di genere femminile. E così sono le altre storie minime che racconto: minime indubbiamente, ma pur sempre storie di resistenza che riguardano donne, gay e, in fin dei conti, tutti. La storia può dunque essere una metafora del presente, se ognuno ritrova in essa la sua dimensione attuale. Personalmente ritrovo nella storia la me stessa di oggi: la ritrovo, ad esempio, in Rosalia Montmasson – l’unica donna della spedizione dei Mille, eppure cancellata dalla memoria collettiva –, la ritrovo in Mazzini, la ritrovo in Ciulla. Raccontando quindi la storia, racconto la me stessa di oggi.
Ha parlato della sua militanza nel Partito comunista italiano. Vede nella scrittura un mezzo per continuare l’attività politica di un tempo?
Anche se non faccio più attacchinaggio, è chiaro che il mio è sempre un discorso politico. In ogni caso, io sono non per il realismo socialista, ma per la necessità della parola, che sia quella che deve essere nella scrittura: nella poesia o nel lavoro in prosa. Per me la parola e la scrittura sono un altro modo di essere presente, di essere azione. Non bisogna poi dimenticare che oggi viviamo in un mondo, in cui anche il linguaggio è contaminato dalla dittatura della finanza. Basta leggere i giornali o ascoltare le televisioni: gli uomini sono presentati come risorse spesso da rottamare, mentre dei mercati si dice che piangono, ridono, si strappano i capelli e forse, chissà, hanno anche orgasmi. Ritengo che all’odierno linguaggio, cosificato e mercificato, si debba contrapporre quale antidoto quello della poesia e della scrittura, che è già in sé di rottura rispetto al formalismo mercenario e mercantile di questa contemporaneità. Lo è ovviamente nella misura in cui non si tratta di linguaggio spazzatura ma, al contrario, capace di dare la parola necessaria e giusta a personaggi e a storie. Purtroppo, oggi la scrittura è in larga parte spazzatura, è immediata. Ma quella vera non può essere tale. Io lavoro moltissimo sulla scrittura, probabilmente perché provengo della poesia. Mi porto quindi dietro questa concezione di necessità della parola. Sono convinta che la scrittura può affrontare in modo alternativo la contemporaneità, perché essa, quando vera, è parola di libertà ed esperienza di verità. Se ci sono queste due cose, la scrittura, anche se parla di un filo d’erba, è certamente alternativa all’odierno mondo di mercificazione dell’uomo e di primato della finanza.
Un’ultima domanda: posso chiederle se sta lavorando a una nuova opera?
Sì, ed è un romanzo storico, in cui cerco di affrontare i due grandi problemi del potere e dell’informazione. Così come avviene oggi anche nel passato, sia pur con modalità diverse, il legame tra l’uno e l’altra era molto stretto. L’opera è ambientata nel Settecento, il secolo delle “tenebrose sette” dei gesuiti e dei massoni. Benché angli antipodi, entrambi furono dipinti a fosche tinte e perseguitati con l’accusa di essere, a loro modo, internazionali sovversive. Il potere dell’informazione è dunque il tema di fondo di questo nuovo romanzo storico, in cui la storia mi si presenta ancora una volta quale metafora della contemporaneità. Potere dell’informazione, che nel secolo dei Lumi fece soprattutto dei Gesuiti, addirittura soppressi dal Papa nel 1773, il demonio del mondo.
Premio Chiara 2020
Diderot 19.10.2020, 17:20
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