Che differenza c’è tra un “luogo” (peggio ancora una “location”, come impone il sempre più assurdo conformismo della neolingua) e un “paesaggio”? Il compianto Gianni Celati, commentando i chiaroscuri delle foto scattate nella Valle Padana e sul Delta del Po dall’amico Carlo Gaiani, aveva osservato molto giustamente che un luogo diventa un “paesaggio” – e di conseguenza «uno sfondo sul quale proiettare il pensiero» nonché «una possibile dimora dove sia sensato morire» – quando è scritto in una lingua che si conosce. Perché in caso contrario rimane un “non luogo” anonimo e incomprensibile, aggredito e infine sopraffatto dall’«infinita miseria del nuovo». Il mondo attuale ne è pieno, esattamente come è pieno di “location” che non dicono nulla all’immaginazione: sfondi astratti sui quali è impossibile proiettare il pensiero, “non luoghi” dove ha poco senso vivere perché non ha alcun senso morire.
Le considerazioni di Celati sono indubbiamente vere e non prive di implicazioni, perché fanno capire fino a che punto, in quella “realtà” che contiene immaginazione e fantasticazione, e insieme le trascende, ogni luogo e ogni punto prospettico possono trasformarsi idealmente nel centro del mondo. Due secoli e mezzo orsono, il viaggiatore italiano Goethe, a Vicenza, prendendo spunto dall’architettura dell’amatissimo Palladio quale «creazione di spazi», l’aveva definita la “terza realtà”, prodotto dell’incontro di verità e finzione, «affascinante proprio nella sua fittizia esistenza». E’ però altrettanto vero, come ha fatto acutamente notare Ennio Flaiano, che nel frattempo la tanto favoleggiata “isola deserta” è scomparsa ed è diventata un’enorme e indifferenziata periferia, ormai diffusa dappertutto: un “non luogo”, una “location”, appunto.
Ne deriva che molto spesso, in una realtà asseritamente “reale” ma costituita principalmente di “non luoghi” intaccati dall’irrealtà, sono proprio talune zone residuali, che si situano oltre la moderna “periferia”, a costituire il centro del mondo: la “piccola città” alla Thornton Wilder, ad esempio, oppure il villaggio fortemente connotato, che nella reinvenzione letteraria esprimono i tratti salienti della condizione umana. La completa identificazione tra un autore e il suo luogo d’origine è ad esempio una caratteristica della letteratura svizzera di lingua tedesca, soprattutto nel caso di Meinrad Inglin e Svitto, intesa non solo come città ma anche come cantone e più ancora come precisa entità territoriale. La “piccola” Svitto, per Inglin, coincide concretamente col luogo d’origine, una circoscritta e talora limitante realtà provinciale, ma nella reinvenzione letteraria diventa Heimat e quindi coordinata esistenziale, luogo fondante, immagine del mondo.
Inglin si inserisce a pieno titolo, e non solo per qualità di scrittura, nel solco di una lunga tradizione che prende le mosse dalla leggendaria Seldwyla di Gottfried Keller, passa per luoghi immaginari e insieme estremamente concreti come Andorra nell’omonimo testo teatrale di Max Frisch oppure Güllen ne La visita della vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt, e arriva fin quasi ai giorni nostri con Barbarswila/Rapperswil nei romanzi di Gerold Späth e infine Schilten (il Mittelland argoviese) nelle opere di Hermann Burger. In ambito italiano, una di queste zone residuali è Cesenatico, l’antico porto di Cesena: nell’immaginario collettivo, infatti, la cittadina della Riviera romagnola si identifica prevalentemente con le vacanze estive, i soggiorni balneari, il meraviglioso Porto Canale, progettato nel 1502 da Leonardo da Vinci, e il ben poco meraviglioso grattacielo edificato a ridosso della spiaggia. Ma c’è anche un’altra Cesenatico.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/letteratura/Meinrad-Inglin--1802881.html
Insieme alla Cesenatico “reale” (e in parte irreale), c’è la Cesenatico ricreata e reinventata da uno dei suoi figli più celebri, il poeta e narratore Marino Moretti, che nella cittadina che gli ha dato i natali ha ambientato numerose liriche (in particolare quelle del periodo crepuscolare, le Poesie scritte col Lapis del 1910) e quattro romanzi, i cosiddetti “romanzi della mia terra”: La voce di Dio (1920), Puri di cuore (1923) e soprattutto i due pannelli conclusivi L’Andreana (1935) e La vedova Fioravanti (1941). Come ogni realtà reinventata, anche la Cesenatico di Moretti, in quanto luogo letterario, è per molti versi più vera della Cesenatico “reale”. Non si esagera, insomma, dicendo che “Cesenatico” significa “Marino Moretti” (e viceversa), perché nella letteratura italiana del Novecento è difficile trovare una così completa e totale aderenza e identificazione tra un autore e il suo luogo d’origine.
Verrebbe da pensare, ad esempio, alla Ferrara di Giorgio Bassani, ma si tratta di un luogo del ricordo, ricreato e reinventato soltanto in virtù di una lontananza spazio-temporale, mentre Marino Moretti non ha mai lasciato Cesenatico e nel corso di una lunga vita, abitando sul Porto Canale, l’ha vista trasformarsi da borgo marinaro – dove la spiaggia non era un termitaio di bagnanti e ombrelloni, ma una distesa di dune ornate di marruche e tamerischi – a destinazione turistica, con relativa speculazione edilizia e cementificazione selvaggia.
Nato il 18 luglio 1885 e morto il 6 luglio 1979, dalla sua casa sul canale leonardesco Moretti ha visto tra l’altro prendere forma lo sconcio architettonico del grattacielo, costruito sul finire degli Cinquanta quasi contemporaneamente ai grattacieli delle vicine Milano Marittima e Rimini. Non riconosceva più Cesenatico, e allora ha reinventato e ricreato “Cesenatico”. Non è una semplice questione di virgolette, perché la differenza è sostanziale: la “Cesenatico” di Moretti è come la “terza realtà” immaginata da Goethe, «affascinante proprio nella sua fittizia esistenza» .
“Cesenatico” intesa come stato della mente, luogo dell’anima e coordinata esistenziale è presente ovunque nell’opera di Moretti, in maniera diretta o indiretta, con alcuni sconfinamenti – se tali li si può definire – nel territorio circostante e nella vicina Cesena, dove è ambientata l’omonima poesia che è il manifesto della lirica crepuscolare (col famoso incipit: «Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena…»), ma anche in luoghi più lontani come la Lombardia, (evocata nell’Elegia delle belle città insieme a «Roma, Pisa, Firenze, i laghi, Venezia…») e perfino la città belga di Bruges, nelle Fiandre: tutte zone e località che diventano per così dire una continuazione di “Cesenatico” con altri mezzi e sullo sfondo di altri orizzonti, ma con le stesse credenziali poetiche (l’idea di una vita persa «nell’infinita ampiezza dell’irreale», simile a un relitto abbandonato sulla spiaggia, come si dice nella poesia Domenica) e lo stesso spicco simbolico: il mondo è “Cesenatico”, “Cesenatico” è il mondo.
E’ all’interno di un simile scenario che Moretti, in questo molto affine a Stefano D’Arrigo e al suo monumentale romanzo Horcynus Orca, ripropone l’antichissimo tema del ritorno, già presente nell’Odissea. Ritorno da dove, e verso dove? Secondo D’Arrigo, l’approdo di ogni ritorno non può essere che «dentro, più dentro, dove il mare è mare» e ci sono soltanto il nulla, la negazione, la morte, l’indistinto. Quanto a Moretti, il ritorno e il radicamento si identificano con una dimensione prelogica e preverbale, dove le cose si mostrano nel loro semplice apparire e non c’è più la pretesa di aver capito qualcosa in generale.
Si tratta di una poetica che è anche una forma di conoscenza e si profila in molte pagine dei suoi romanzi, ma trova la massima espressione in una lirica del 1911, intitolata significativamente Io non ho nulla da dire: «Aver qualche cosa da dire / nel mondo a sé stessi, alla gente. / Che cosa? Io non so veramente / perché io non ho nulla da dire. / Che cosa? Io non so veramente. / Ma ci son quelli che sanno. / Io no – lo confesso a mio danno, / non ho da dir nulla ossia niente. / Perché continuare a mentire, / cercare d’illudersi? Adesso chi’io parlo a me mi confesso: / io non ho niente da dire».
E’ anche per questo motivo, al quale bisogna aggiungere i tratti umoristici, surreali e grotteschi presenti nelle sue opere narrative più riuscite, che si può parlare di Marino Moretti come di un “progenitore” del suo conterraneo Federico Fellini, il quale in sostanza ha fatto con Rimini ciò che Moretti ha fatto con Cesenatico. Perché Fellini ha trasformato Rimini in “Rimini” (la “terza realtà”) servendosi di un altro mezzo espressivo e calcando maggiormente sul lato clownesco e buffonesco della tragicommedia umana. Per dirlo con un termine tipicamente romagnolo, anche i “vitelloni” riminesi di Fellini e le macchiette di Amarcord, esattamente come i pescivendoli cesenaticensi di Moretti (basti pensare all’ineffabile Raimondo “Mondo” Zavatti ne L’Andreana) sono dei “patacca”: a volte tragici e abietti, molto più spesso ridicoli, e comunque persi come tutti nel nulla comune dell’universale “pataccaio vociante” (l’espressione è di Fellini).
Nei romanzi di Moretti rivive la Cesenatico marinara delle vecchie tartane, dei barchetti e dei bragozzi, del caldissimo e spossante vento “garbino” che ingarbuglia i pensieri (il garbein, come viene chiamato il libeccio sul litorale emiliano-romagnolo, che si scalda al contatto delle glebe dell’entroterra e arriva infuocato sulla costa), delle “conserve” per la refrigerazione del pesce e di personaggi come la sfortunata ma intrepida Andreana, che merita un posto tra le più belle figure femminili della letteratura italiana proprio insieme alla morbinosa Matilde detta “Mitelda”, vedova Fioravanti e madre fin troppo premurosa del giovane prete Don Dorligo.
Marino Moretti è stato un narratore puro, che scriveva benissimo, in un italiano denso e pastoso: la sua lingua è fatta di sorprendenti invenzioni lessicali e impensati costrutti sintattici (basti come esempio il primo capitolo de L’Andreana, semplicemente perfetto), nella quale si ha l’impressione – come in certi dipinti del suo amico De Pisis – di avvertire la vastità del mare, i suoi umori salmastri, il tutto e il nulla ispirati dalla sua visione. E non da ultimo il soffio di un vento davvero molto felliniano (come nella scena conclusiva di Amarcord), simile a un respiro che trascina fino a noi voci, parvenze, immagini e destini di una “Cesenatico” che continua a parlarci dalle profondità del tempo: non un semplice “luogo” intaccato dall’irrealtà, ma un autentico “paesaggio”, perché scritto in una lingua che conosciamo, o almeno dovremmo conoscere.
Se c’è un’eredità di Marino Moretti e della sua “Cesenatico”, è proprio questa: l’idea quasi utopica di un “paesaggio” dove il “niente da dire”, la svagatezza dei pensieri e la costante percezione del nulla delle cose, evocata dalla presenza concreta e simbolica del mare, si compongono in una lingua che si conosce e in una sintassi diversa da quella delle flaubertiane idées reçues e dei frigidi frasari d’attualità. Come dicono i versi iniziali de L’archivio, una poesia scritta negli ultimi anni di vita, dedicata al passare del tempo e all’accumularsi spesso meramente additivo delle esperienze vissute: «L’archivio dei ricordi ci divora. / Dirò come preludio / che nel mio chiuso studio / c’è il tramonto e l’aurora, / ed è questa che sorge dal tramonto». Ma all’interno di un “paesaggio”, e in una lingua che si conosce, risulta più facile e naturale, nonché più sensato, accettare il destino e la fatalità biologica del vivere e dover morire, come suggeriscono i versi conclusivi: «L’idea della sorte che chiude / le cinque porticine dei sensi».

ControLuce - Gianni Celati
RSI ControLuce 26.04.2009, 09:27