Calvino a 40 anni dalla morte

Scrivere per non smarrirsi

Nel labirinto del capitalismo, Italo Calvino affida alla precisione della lingua il compito di salvare il senso. Dal “Barone rampante” alle “Lezioni americane”, un autore che ha fatto dell’esattezza una forma di impegno

  • 19 settembre, 08:30
  • 19 settembre, 11:36
Italo-Calvino
Di: Mattia Cavadini (Mat) 

Calvino sta al Novecento italiano come Leopardi — soprattutto quello delle Operette morali — sta all’Ottocento: entrambi filosofi travestiti da scrittori, capaci di interrogare il mondo con una lingua che è pensiero in movimento. Se Moravia, Pasolini e Sciascia hanno inciso con forza nel dibattito civile, Calvino ha qualcosa in più: una scrittura che non dice mai nulla di superfluo, che è «lingua esatta e pronuncia intera», come avrebbe detto Foscolo, non sapendo che proprio Calvino avrebbe incarnato quell’ideale con più grazia e rigore di lui.

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L'esattezza del fantastico

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Due sono le qualità che lo rendono inconfondibile: l’esattezza e la leggerezza. Attorno a questi valori ruota il suo saggio Lezioni americane, il testamento intellettuale che avrebbe dovuto contenere sei memos per il nuovo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Le prime cinque ci sono, la sesta resta incompiuta: Calvino muore nel settembre 1985, colpito da ictus, mentre ancora scrive.

Essere leggeri quando si racconta una storia di resistenza — come ne Il sentiero dei nidi di ragno — non è scontato; così come non è ovvio essere esatti quando si fantastica di mondi invisibili — come ne Le città invisibili o nella trilogia I nostri antenati. Eppure Calvino riesce a essere entrambe le cose, sempre. Per quanto irreale sia la trama, la sua scrittura è precisa; e per quanto realistica sia la scena, la sua voce è lieve. Come scrive Ennio Flaiano, Calvino è «un autore con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole»: apparentemente avulso dalla realtà, ma in costante dialogo con la Storia.

Se la fuga dalla realtà è centrale nella sua opera, non meno lo è la critica al mondo capitalistico, alienante e privo di senso. Il suo impegno civile si riflette in articoli e interventi raccolti nel volume La sfida al labirinto, dove lo scrittore riflette sul ruolo dell’intellettuale e sulla funzione della letteratura come bussola nel caos contemporaneo. «Il mondo moderno è un labirinto», scrive, «e l’intellettuale deve trovare il filo per uscirne, o almeno per non smarrirsi».

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Calvino vede il capitalismo come un sistema in preda all’entropia, alla disgregazione dei significati. Contro questa deriva, oppone la forza della scrittura: una lingua che risponde a regole, a scelte lessicali rigorose, a una grammatica che non tradisce. «La mia fiducia nella scrittura è una fiducia nella possibilità di dare forma al mondo», afferma. L’esattezza diventa così un atto di resistenza, un modo per opporsi allo sgretolamento dell’individuo e del senso.

E la leggerezza? Non è evasione, ma profondità. «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore», scrive nelle Lezioni americane. È una forma di lucidità, di distacco che permette di vedere meglio, di pensare più a fondo.

Nei suoi romanzi, la realtà è sempre un gioco di specchi. Il confine tra vero e immaginario si dissolve. I temi — il conflitto tra bene e male, la violenza, la liberazione, la Storia che irrompe nella vita dei personaggi — si muovono nell’alone del fantastico. In I nostri antenati, il Visconte dimezzato, il Barone rampante e il Cavaliere inesistente incarnano figure che fuggono dal reale, ma lo interrogano con più forza di chi lo abita.

Calvino non descrive il mondo: lo reinventa. E lo fa con una scrittura che è insieme architettura e danza, rigore e incanto. I suoi riferimenti sono alti: Ovidio, Ariosto, Voltaire. Ma anche Bosch e Brueghel, per la dimensione grottesca e visionaria. In Se una notte d’inverno un viaggiatore, il lettore è trascinato in un labirinto di incipit, in un infinito gioco di rimandi che mette in scena la pluralità del reale. Nulla è univoco, tutto è molteplice.

Schierato con il Partito Comunista sin dall’arruolamento nella divisione “Garibaldi”, Calvino abbandona il PCI nel 1956, dopo la denuncia dei crimini di Stalin. Ma non abbandona l’impegno: resta critico verso il capitalismo, solidale con le lotte per la libertà, vicino a Cuba e al Vietnam. La sua è una militanza intellettuale, fatta di pensiero e di stile.

In lui convivono due tensioni: l’impegno e la fuga. La precisione della lingua e la leggerezza del volo. Calvino ci insegna che la realtà non è mai una, ma sempre molteplice. E che per coglierla davvero, bisogna saperla immaginare.

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