Se qualcuno pensa che mi metterò a recitare il mea culpa si sbaglia di grosso. La gente si fa un sacco di idee quando mi vede: da dove vengo, chi sono i miei genitori, in che casa vivo, se vado bene a scuola. Insomma, un bel quadretto preconfezionato. Ma, dico io, una storia non si può cogliere al primo sguardo, bisogna armarsi di pazienza e mettersi in ascolto. Riconoscere, per esempio, che sono le nostre scelte a mostrare di che pasta siamo fatti.
Il comandante del fiume (66THAND2ND, 2014)
Ubah Cristina Ali Farah, voce nota ai microfoni della RSI, è nata a Verona. All’età di tre anni si trasferisce con la famiglia a Mogadiscio, dove vive la sua infanzia e cresce fino allo scoppio della guerra civile, nel 1991. Ubah Cristina Ali Farah ama definirsi somalo-italiana, anziché italo-somala, una semplice precisazione che però scuote una certa visione eurocentrica diffusamente interiorizzata. La sua esperienza si traduce in voce corale composta dalle molte identità messe a tacere dal colonialismo, durante gli anni dell’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, e dalla guerra. La sua partenza dalla capitale somala coincide anche con l’arrivo di Harun, il suo primo figlio. Questo ossimoro: maternità-guerra è una delle immagini ricorrenti nella prosa e nei versi della scrittrice. Ubah Cristina Ali Farah si fa così interprete di mondi complessi e ci restituisce spaccati di quotidianità scarsamente rappresentati; le figure femminili – collante delle sue narrazioni – svolgono un ruolo di mediatrici tra le sfaccettature delle varie società patriarcali all’interno delle quali i personaggi maschili faticano a trovare un loro ruolo.
Vincitrice nel 2006 del premio Lingua Madre e nel 2008 del premio Vittorini, grazie a Madre piccola (Frassinelli, 2007), è autrice anche de Il comandante del fiume (66th and 2nd, 2014), La danza dell’orice (Juxta Press, 2020) e Le stazioni della luna (66thand2nd, 2021). Ubah Cristina Ali Farah ha partecipato a numerosi programmi internazionali di scrittura creativa, tra cui L’International Writing Program della University of Iowa e quelli della Civitella Ranieri Foundation e dello Stellenbosch Institute for Advanced Study. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Africanistica, con una tesi sul teatro popolare somalo, all’Università l’Orientale di Napoli. È consulente per il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) e attualmente sta collaborando al progetto Oral history for peace building. Noi l’abbiamo incontrata nella cornice del progetto di Bibliobaobab, L’altra lingua, un’iniziativa rivolta a persone che hanno l’italiano come seconda lingua. Un progetto che si è sviluppato attraverso tre incontri svolti nell’arco dello scorso anno coinvolgendo molte persone, per la maggioranza donne, di nazionalità diverse, accomunate dal desiderio di esprimere il loro vissuto, i loro pensieri, in una delle lingue del Paese che le ha accolte o che hanno scelto.
Hai detto che la seconda lingua a volte può rappresentare il terreno neutro dove le emozioni possono essere controllate a differenza di quella lingua dei sentimenti, usata per comprare le spezie al mercato, per dire ti amo, per elaborare il dolore. Come è nata la tua collaborazione con Bibliobaobab e di cosa si tratta?
Il progetto L’altra lingua è nato come progetto di scrittura e soprattutto di narrazione. Il gruppo che ha partecipato aveva competenze diverse della lingua italiana, ciononostante non era un corso di lingua, ma piuttosto un percorso di racconto. Abbiamo iniziato a lavorare sul nome, su elementi in realtà molto semplici, ma che hanno sollecitato, leggendo anche tanta poesia, moltissime riflessioni sul percorso che ciascuno ha fatto. Babel mi ha chiesto in un qualche modo di guidare questo laboratorio, io sono venuta a Bellinzona tre volte nel corso dell’anno, ma il lavoro più grande lo ha svolto soprattutto Bibliobaobab che ha continuato a seguire le persone che hanno frequentato la biblioteca con regolarità. L’idea di Babel è stata quella di utilizzare l’italiano senza però dimenticare la lingua alle spalle, cioè la lingua madre. Tutti i partecipanti avevano una lingua madre diversa e insieme abbiamo indagato l’italiano che è la lingua che in questo contesto utilizziamo per comunicare; al di là della politica e dell’accoglienza, a me piace pensare che vogliamo imparare una lingua perché vogliamo prima di tutto parlare con un’altra persona e per questo motivo non direi che questa è una lingua neutra, anzi c’è una forma di amore in questo apprendimento.
“Il comandante del fiume” è stato definito dalla critica il primo romanzo di formazione postcoloniale italiano. Al suo interno utilizzi il dispositivo della fiaba, perché hai detto che credi sia l’unico modo per dialogare con la propria storia, per accettarla e trovare delle chiavi interpretative. Quali sono i temi che accompagnano questo dispositivo e la tua scrittura?
Credo che ciascun autore abbia le sue ossessioni, molte volte ci interroghiamo dicendoci che vorremmo essere liberi di scrivere di qualcosa che non c’entri nulla con la nostra storia, però io penso che in realtà, la vita che abbiamo avuto, non può non influenzarci profondamente. Io parlo sempre di questioni che in qualche modo hanno toccato la mia vita, che mi sono state a cuore, che ho perseguito. Per questa ragione i temi che muovono la mia scrittura riguardano l’esilio, la maternità, il corpo della donna, la guerra che nella mia biografia è coincisa con la maternità, il colonialismo che per me è la forma suprema del patriarcato e il rapporto coloniale tra l’Italia e la Somalia, un rapporto di cui si sta solo cominciando a discutere. Farsi delle domande, non essere dogmatici, è secondo me l’unica possibile risposta al chiudersi dentro un’identità costruita, falsa, che crea lo scontro tra le civiltà.
Crescere tra Mogadiscio e Roma
RSI Cultura 13.02.2023, 11:58
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Hai raccontato come a Mogadiscio la lingua parlata quotidianamente fosse il somalo, nonostante l’immaginario fosse quello italiano, appreso sugli stessi libri che i bambini e le bambine della tua età studiavano a Roma, a Catania o Firenze. Durante la tua formazione quali sono stati i tuoi riferimenti letterari?
La letteratura è molto importante, per il mio lavoro è fondamentale leggere, leggere. Siccome la mia formazione, pur essendo cresciuta in Somalia, è stata in italiano, quando sono arrivata in Italia un elemento molto importante – che però non era nostalgico – è stato quello di studiare e leggere anche molta poesia somala. Era un modo per spiegarmi cosa era successo e per non perdere una parte di me, perché la poesia e la letteratura sono dei mezzi, degli strumenti che ci aiutano a interpretare e affrontare la realtà. Per quando riguarda i miei riferimenti letterari, quando ero molto giovane, avendo studiato tutta la letteratura europea, a un certo punto ho recuperato il somalo e mi sono messa a leggere Hadrawi (pseudonimo di Mohamed Ibrahim Warsame), Yamyam (pseudonimo di Abdulkadir Hersi Siyad), Nuruddin Farah (vincitore del Neustadt International Prize for Literature) e in generale soprattutto romanzi di scrittori post-coloniali. Ho iniziato in realtà dai latino-americani, il mio scrittore più amato è João Guimarães Rosa, poi lo scrittore e regista senegalese Ousmane Sembène, anche il Premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka (pseudonimo di Akinwande Oluwole Soyinka) originario della Nigeria, la scrittrice botswana Bessie Head e le scrittrici sudafricane Zoë Wicomb e Ingrid de Kok. Con questi scrittori e scrittrici mi sono resa conto per la prima volta che esisteva un modo per narrare la storia in una prospettiva diversa.
Fuggita dalla Somalia, dopo alcuni anni trascorsi a Pécs (Ungheria), sei tornata in Italia per poi stabilirti a Roma dove hai vissuto per diciotto anni. Attualmente vivi a Bruxelles, com’è cambiata la tua vita?
Bruxelles è molto interessante e mi ha offerto anche una prospettiva diversa: è stata definita una delle città al mondo in cui si parlano più lingue. A Bruxelles le persone ti chiedono di dove sei, ma te lo chiedono in modo diverso da come te lo chiedono in Italia, perché a Bruxelles tutti hanno provenienze, storie diverse che sono però un arricchimento, non qualcosa da tenere nascosto. È interessante come una stessa domanda, posta in contesti differenti, abbia un significato diverso. A Bruxelles di dove sei, significa raccontami la tua storia, non è per renderti altro. Per me questo fatto di essere birazziale è qualcosa che ha accompagnato tutta la mia vita, perché pur essendo cresciuta in Somalia era evidente che io non fossi completamente somala. Poi mi sono trasferita in Italia, convinta che l’Italia mi avrebbe riconosciuta e invece non l’ha fatto. Erano gli anni Novanta, improvvisamente l’Italia diventava un paese di immigrazione anziché di emigrazione. I somali che erano stati ex-colonizzati erano in quegli anni in gran numero in Italia, speravano che ci sarebbe stata una sorta di apertura, accoglienza e invece non è andata così, e infatti poi se ne sono tutti andati.
Mogadiscio, di Ubah Cristina Ali Farah
Le città Invisibili 24.06.2023, 16:00
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In che modo la tua identità birazziale ha influenzato il tuo sguardo e la tua scrittura?
Le persone birazziali sono abituate ad avere due genitori diversi nella stessa casa indipendentemente da dove vivi; il contrasto non è tra il mondo esterno e la tua famiglia, ma è dentro. Cresciamo con questa differenza all’interno della nostra stessa casa, non si tratta di una famiglia di una cultura e poi, il mondo esterno, parla un’altra lingua: noi impariamo che le cose possono essere nominate in più modi, da subito. Può essere più complesso, però allo stesso tempo se riesci a risolverlo, credo sia anche più costruttivo perché sono due persone che ami, che nominano le stesse cose con parole diverse, le concepiscono in un modo diverso e questo ti arricchisce. È una negoziazione continua, il fatto positivo è che ti abitui, di contro, il fatto che persone molto intime come quelle che ti hanno generato di volta in volta non ti riconoscono a seconda di quello che tu fai, a seconda di come ti muovi o semplicemente anche fisicamente – io ho una mamma veneta completamente diversa da me – che amo molto, ma insomma per lei, per me, per entrambe è stato molto difficile anche banalmente essere fisicamente diverse. Tutto questo ha generato una paura di non essere adeguata, anche se non mi viene rinfacciato, adeguata a quello che le persone che amo si aspettano perché c’è sempre qualcosa di oscuro, che è indicibile.
Cristina Ubah Ali Farah, ChiassoLetteraria
Festival d'autore 07.08.2022, 10:35
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Questa tua condizione a metà tra due mondi, tra due culture, ti ha eletta tuo malgrado interprete all’interno della tua famiglia, con tutte le responsabilità che questo incarico comporta.
Sì, un elemento che è per me molto importante durante la scrittura è il fatto di interrogarmi sempre sulla potenzialità della traduzione. Il mio lavoro ruota molto sulla riflessione riguardante le parole intraducibili, sia in una cultura che nell’altra. Un’altra cosa su cui ho sempre riflettuto è anche il modo di raccontare, perché la lingua è lessico, naturalmente, che apprendiamo a seconda della cultura e delle circostanze, ma è anche il modo di formare un discorso; per esempio, una persona somala e una persona di un’altra cultura ti racconteranno una stessa storia in modo diverso. Quando ho cominciato tanti anni fa a lavorare come mediatrice culturale sentivo che questo modo di narrare, una volta decodificato, possedeva e possiede delle potenzialità poetiche molto forti. Lo studio di questo aspetto, come si forma una lingua quando abbiamo un’altra lingua madre alle spalle, con un altro modo di pensare e un altro immaginario ha sempre influenzato la mia scrittura.