Letteratura

Villiers de l’Isle-Adam

Il profeta delle nostre paure tecnologiche

  • 18 marzo 2023, 00:00
  • 14 settembre 2023, 09:01
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Di: Mattia Mantovani

Alla presente altezza cronologica, dopo gli orrori e le nefandezze del “secolo breve”, e anche alla luce del tutt’altro che glorioso e incoraggiante inizio del secolo ventunesimo, risulta perfino troppo facile, per non dire banale, sostenere che nel “progresso” e nelle “magnifiche sorti” c’era qualcosa di sostanziale che non funzionava. Ma intorno al 1880, negli anni del positivismo e delle sue presunte glorie (poi rivelatesi dubitosi raggiungimenti), bisognava essere dei geni e perfino dei visionari per capire che le “magnifiche sorti” non sarebbero poi state tanto magnifiche. E che l’intero baraccone si reggeva su fondamenta piuttosto cedevoli. Villiers de l'Isle-Adam era precisamente un genio visionario, ed è stato tra i primi a capirlo.

Era nato a Saint-Brieuc in Bretagna nel 1838 ed è morto a Parigi nel 1889, è stato narratore e commediografo, le sue opere più celebri sono i “Racconti crudeli” (1883-1888) e il romanzo “Eva futura” (“L’Ève future”, 1886). Si è detto che è stato il più grande narratore fantastico francese, che “Eva futura” sta al Romanzo come le liriche del suo fraterno amico Stéphane Mallarmé stanno alla Poesia, e che il suo coraggioso e perfino spericolato simbolismo ha concretamente traghettato la letteratura francese nel Novecento, oltre il naturalismo di Zola e dei Goncourt. E’ tutto vero, anzi verissimo, ma si tralascia un particolare tutt’altro che secondario.

Perché Jean-Marie-Mathias-Philippe-Auguste de Villiers de l'Isle-Adam (semplicemente “Mathias” per gli amici), oltre che un grande narratore, è stato davvero un genio visionario, inevitabilmente poco compreso all’epoca ma oggi di una vibrante attualità, non solo per la reinvenzione della realtà contenuta nel ciclo dei “Racconti crudeli”, ai quali hanno attinto molte avanguardie del Novecento (in particolare il suo ideale erede Antonin Artaud), ma soprattutto per un romanzo quale “Eva futura”, che viene un po’ sbrigativamente classificato come il primo romanzo di fantascienza della storia della letteratura oppure come il primo romanzo distopico, anticipatore di un genere che nel Novecento ha prodotto grandi autori e grandi opere.

Beninteso, “Eva futura” è senza dubbio un romanzo di fantascienza e un romanzo distopico, ma è anche una discesa a rotta di collo -e insieme sorvegliatissima- nel cuore di tenebra della civiltà delle macchine e della finta democratizzazione della vita, dove tutto sembra possibile e a portata di mano, ma soltanto a prezzo dell’astrazione, dell’irrealtà, perfino della libertà. Villiers de l'Isle-Adam, in questo senso, è stato forse il primo narratore, interi decenni prima rispetto ai grandi scettici del Novecento, a mostrare fino a che punto la tanto decantata “libertà” sia in ultima analisi una faccenda piuttosto complicata, facilmente definibile per sottrazione ma non per addizione, e che il confine tra la libertà stessa e il determinismo è molto più labile di quanto si potrebbe pensare.

Giustamente definito “il Faust francese”, scritto tra il 1877 e il 1880, “Eva futura” venne pubblicato come detto nel 1886, ma che Villiers fosse un genio visionario lo si era già intuito parecchi anni prima, dai suoi primi racconti, e poi nel 1874, quando era stato l’unico a individuare non solo l’oggettivo valore ma anche la dimensione profetica della commedia in quattro atti “Il candidato” di uno dei suoi grandi modelli letterari, Gustave Flaubert -l’unica opera teatrale pubblicata in vita dall’autore di “Madame Bovary”-, che era stata violentemente stroncata dalla critica, ignorata dal pubblico e infine sconfessata dallo stesso Flaubert. Non è quindi esagerato affermare che il nucleo originario di “Eva futura” è contenuto nelle parole con cui Villiers ha colto e restituito il senso più autentico de “Il candidato”, feroce satira dei luoghi comuni e delle menzogne di quella politica che circa un decennio dopo, in un celebre e tutt’altro che distopico passo di “Controcorrente” di Huysmans, verrà definita il «basso sfogo dei mediocri».

Nella recensione, apparsa sulla “Revue du monde nouveau” e poi raccolta nel volume “Chez les passants”, apparso postumo nel 1890, l’autore sostiene infatti che lo scopo ultimo della commedia di Flaubert consiste nel riuscitissimo tentativo «di esibire una superba collezione di scimmioni e gorilla che giocano con gli specchi». Il pubblico, ovviamente, non si diverte perché «vede se stesso sul palco», riconosce con orrore e disgusto la propria «triste avventura» e si arrabbia come un condannato, giudicato colpevole di stupidità e costretto a pagare le spese del processo. L’unica verità della vita è infatti la “bêtise”, la stupidità universale, che il finto progresso non attenua ma anzi acuisce e rende perfino irreversibile. Ne “Il candidato” il finto progresso è rappresentato dalla “bêtise” declinata nel senso della retorica politica, mentre nei “Racconti crudeli” -ad esempio nello straordinario “La pubblicità celeste”- e soprattutto in “Eva futura” il finto progresso/“bêtise” si identifica col giulivo e acritico ottimismo scientista e la pretesa di forzare la realtà naturale con la creazione di un androide (o per essere più precisi di un’andreide, una donna-robot).

Non bisogna inoltre trascurare la dimensione della vita quale “comédie jusqu’à la mort” e giostra delle apparenze, meravigliosamente esplicitata nel secondo capitolo della quinta parte di “Eva Futura”. A parlare è nientemeno che Thomas Alva Edison, il creatore dell’andreide Hadaly: «Chi mai su questa terra sarebbe così strambo al punto da provare a illudersi che non recita una parte per tutta la vita? Solo chi non conosce il proprio ruolo sostiene il contrario. Tutti recitano, per forza! E ognuno con se stesso. Vorremmo persuadere il prossimo di essere noi stessi persuasi di una cosa, mentre, nella coscienza malcelata, sentiamo vediamo percepiamo che siamo i primi a dubitare di questa affermazione. E perché mai? Per gloriarci di una fede totalmente fittizia, cui nessuno crede neppure per un secondo e che l’interlocutore finge di ammettere… solo al fine di essere poi ricambiato. Commedia, vi dico…». C’è già tutto Kafka, con tre decenni di anticipo, e c’è già molto del cuore di tenebra novecentesco.

“Eva futura” ci fornisce tuttavia una residua speranza, ravvisabile nella consapevolezza che la tecnologia, per essere liberatrice, dovrebbe a sua volta liberarsi di ciò che la rende oppressione, nel segno di un radicale ripensamento del pluralismo e della costruzione di un’etica condivisa. Si realizzerà mai una simile speranza, che al momento sembra piuttosto una vaga e ingenua utopia? Rimane il fatto che dalle pagine di “Eva futura” sembra provenire una brezza gelida che oggi più che mai ci provoca brividi e trasalimenti. Perché forse la storia di Lord Ewald, perdutamente innamorato di un’attricetta americana, Alicia Clary, tanto bella quanto stupida, non è poi così fantascientifica e distopica. Ancor meno fantascientifica e distopica è inoltre l’idea dello stesso ricchissimo Lord Ewald, che ricorre al massimo scienziato e inventore dell’epoca (il già ricordato Thomas Alva Edison) per fare in modo che la bellissima e stupidissima Alicia si trasformi nell’“andreide” nonché “Eva futura” Hadaly, che non è soltanto bellissima ma anche intelligentissima e plasmabile a piacimento, in quanto prodotta interamente in laboratorio. Anzi, in “un” laboratorio, che è quello di Menlo Park in California, dove oggi hanno sede Facebook e altri colossi dell’informatica. Brividi e trasalimenti, appunto.

Fantascienza e distopia? Può darsi, ma il quadro che si compone pagina dopo pagina e che alla fine, proprio quando l’esperimento fallisce, assume connotazioni sinistramente reali, sembra tratto da una di quelle cronache più o meno quotidiane che ormai si scambiano troppo facilmente per qualcosa di assolutamente normale. E forse non è distopico e fantascientifico nemmeno il finale che ricorda molto Pascal, quando Edison, «levando lo sguardo verso le vecchie sfere luminose che ardevano impassibili tra nuvole pesanti e costellavano, infinite, l’inconcepibile mistero dei cieli, ebbe un brivido -di freddo, probabilmente-, in silenzio». Una cosa, invece, è certa: il genio visionario di Villiers de l’Isle-Adam, col suo profetico rifiuto del “positif du monde”, è come un evidenziatore passato senza pietà e senza infingimenti sul grassetto dei nostri dubbi e delle nostre paure. Ma soprattutto è l’eco -vicinissima e assordante- di certe nostre miserie tecnologiche e in definitiva della nostra coscienza eternamente infelice.

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