Musica rock

“77”, la leggendaria infanzia dei Talking Heads

È appena uscita una corposa ristampa del primo album di una delle band simbolo del periodo new wave

  • 10 novembre, 09:00
  • 20 novembre, 17:39
Talking Heads

Talking Heads

  • Island Alive Pictures/Courtesy Everett Collection
Di: Riccardo Bertoncelli 

È un anno speciale per i Talking Heads, che da un lato festeggiano i quarant’anni di un loro iconico disco/film, “Stop Making Sense”, e dall’altro celebrano la loro infanzia discografica riproponendo il disco d’esordio, “77”, che esce in una lussuosa edizione di tre CD: nel primo ci sono gli undici brani originali, nel secondo una serie di Rarities edite e inedite, nel terzo i nastri di uno show mai pubblicato prima al CBGB’s, 10 ottobre 1977, nel corso del tour di promozione dell’album condotto insieme ai Ramones.

I Talking Heads erano nati come trio nel 1975, ma si può risalire anche più indietro, cosiderando timide prove con il nome di Artistics già a partire dal 1973. Erano tre amici di una scuola di grafica di Rhode Island con la passione del rock; David Byrne cantava, componeva e suonava la chitarra, Chris Frantz era batterista e la sua fidanzata, Martina “Tina” Weymouth, per seguirli a un certo punto aveva deciso di imbracciare il basso. Abitavano insieme in un disordinato loft di una New York molto diversa da quella attuale, desolata, in crisi, decadente, e sognavano una musica nuova, come altri ragazzi di quella città e di quella stagione. Il loro rock minimale e scorticante fu definito “punk”, ma guai a paragonarlo a quello delle bande inglesi, il “grado zero” di Sex Pistols, Damned e via così. Il “punk” nuovayorkese era fantasioso e vario, e ogni esponente affrontava il tema del “nuovo” da una diversa, personalissima angolazione: Richard Hell con i Voidoids, Tom Verlaine e i Television, i Ramones, Patti Smith, i Talking Heads appunto, non erano una scuola con uno stile definito, piuttosto un movimento di esperienze singole nel segno di un radicale rinnovamento.

I discografici si accorsero presto di quei ragazzi, che si esibivano soprattutto sulla pedana di un sudicio locale della Lower East Side, il CBGB’s. Fioccarono le proposte e anche Lou Reed si mostrò interessato, ma i tre non erano convinti, per varie ragioni; quella musicale era che sentivano di non essere completi senza un secondo chitarrista e un tastierista. Solo alla fine del 1976 accettarono un contratto con la giovane etichetta Sire, e andarono in studio per un 45 giri, “Love Goes to Buildings on Fire/ New Feelings”, che resta l’unica testimonianza della band come trio. Di lì a poco infatti arrivò Jerry Harrison, e le cose cambiarono; il nuovo entrato era perfetto, ricopriva entrambi i ruoli di tastierista e chitarrista e portava in dote una buona esperienza di rock minimale come membro dei Modern Lovers di Jonathan Richman. Harrison raggiunse i compagni ai Sundragon Studios di New York e insieme definirono il primo LP, lavorando per tutta la primavera con un produttore che perse subito la loro stima, Tony Bongiovi, e un assistente che invece diede un prezioso contributo, Lance Quinn. 

Bongiovi non aveva capito la situazione, voleva insegnare il rock mainstream e la formula sonora per passare in radio mentre quei ragazzi cercavano tutt’altro. Soprattutto Byrne, il leader, aveva le idee chiare. Cercava un suono magro, pungente, voleva che la sua chitarra fosse “sottile, pulita e squillante, non grossolana, distorta e macho”; “metallica e precisa ma anche funky e africana”, perché la sirena delle musiche oltre il rock già allora lo tentava e nella sua personale classifica un giorno avrebbe confessato che “Get It Together” dei Jackson Five valeva per lui come il “Sgt. Pepper”. Puntiglioso e determinato, Byrne portò il disco dove voleva lui, con l’appoggio dei compagni che diedero un importante contributo esecutivo e in un caso anche compositivo: “Psycho Killer”, la canzone più famosa, fu firmata dai tre membri originali, David, Chris e Tina, e ancora oggi suona come manifesto di quel rock nudo e tagliente, con il canto allucinato, il ritmo robotico, il gusto per la stranita lallazione, fa fa fa fa - fa fa fa - una filastrocca per tempi nuovi. A quel pezzo lavorarono molto, provando anche una versione acustica con il violoncello di Arthur Russell, altro geniale protagonista di quella “New York New Music”; versione deliziosa (si ascolta nel disco di Rarities) ma in effetti eccentrica e incoerente rispetto a un album molto compatto. Stranamente “Psycho Killer” non fu scelto come primo singolo ma come secondo, dopo “Uh-oh, Love Comes to Town”. Il tempo cambia la percezione, chissà: il terzo singolo fu “Pulled Up”, bella canzone ma forse non così esemplare come avrebbero potuto essere, per esempio, “The Book I Read” e “Don’t Worry About Government”, con quell’accattivante piglio fra marcetta bandistica e rock dance che è il marchio tipico di quei primi Talking Heads. 

“77” uscì senza particolare successo, giusto un po’ di curiosità. Solo con il tempo sarebbe stata accertata la sua importanza, con quel titolo poi che fissava una stagione precisa e fatale - l’anno del punk. Finite le registrazioni, ad aprile i Talking Heads volarono in Gran Bretagna per la prima visita europea e lì, al Rock Garden, minuscolo locale in una cantina dello storico mercato del Covent Garden, fecero un incontro che avrebbe cambiato la loro storia; quello con Brian Eno, produttore e consigliere dei successivi tre album, ancora più ricchi e originali di quell’esordio peraltro già così speciale.

26:16

“77” raccontato da Riccardo Bertoncelli

Montmartre 08.11.2024, 15:00

Ti potrebbe interessare