Musica rock

“A Northern Soul”, i Verve prima del botto

30 anni fa usciva il secondo album della band inglese: un ponte tra gli esordi indie e il trionfo commerciale del successivo “Urban Hymns”

  • Oggi, 11:03
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Richard Ashcrof, ex-cantante dei Verve

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Di: Andrea Rigazzi 

A cavallo fra ombra e luce. A Northern Soul, secondo album dei Verve uscito 30 anni fa, cammina su quel crinale e lo fa con il carico di vicende che hanno portato alla sua uscita e di quelle che condurranno la band al trionfo commerciale del disco successivo, Urban Hymns (1997).

C’è però un prima, appunto, da ripercorrere.

Nel 1990 i Verve sono uno dei tanti promettenti complessini inglesi che spremono stille dalle stagioni shoegaze e Madchester sbocciate appena qualche anno prima. Certo, se puoi contare su Richard Ashcroft, con il suo modo sciamanico di cantare e muoversi sul palco e il suo fascino da maudit sballato, è più facile sfondare. Però questo lo diciamo adesso, a posteriori, quando la piccola-grande storia del pop si è già pronunciata. C’è da dire che loro ci credevano fin dall’inizio. Come riporta John Robb nel suo libro Manchester 1977-1996, per bocca di Ashcroft i Verve volevano «fare musica con i grandi come Miles Davis, i Can o gli Chic […] però volevamo che fosse roba che piacesse a tutti». Pensavano in grande e la loro musica la volevano grandiosa.

Tempo tre anni e il quartetto, che aveva azzeccato una serie di pezzi issandosi fra i beniamini delle classifiche indie inglesi, consolida lo status con il disco di debutto, A Storm in Heaven. I due singoli tratti dall’album (Slide Away, Blue) vanno in rotazione anche sui grandi network stile Mtv, e permettono di allargare la platea di estimatori al di fuori dei circoli più ristretti. Un disco in cui le liriche di Ashcroft, uno che ha la fissa per la psiche e si mantiene in costante galleggiamento dentro il suo liquido onirico, rifluiscono nel lavoro chitarristico di Nick McCabe, giovanotto che sa creare volute di suono con il solo ausilio della sua sei corde. Un blues molto personale sospinto da una cascata di effetti in cui abbandonarsi, perdersi. Numeri come Beautiful Mind, Already There, Make It ‘Til Monday sono perle su cui cullare dolcemente l’ascolto.

Il gruppo è pronto al salto di qualità, eppure, in quell’intervallo di tempo racchiuso fra il ’93 e il ’95, sembra aver consumato le sue energie. Un contenzioso legale con l’etichetta jazz Verve gli impone di mettere “The” davanti al nome, il tour negli Stati Uniti spedisce Ashcroft all’ospedale disidratato da una sbronza epocale e il batterista Peter Salisbury in galera per aver devastato la sua camera d’albergo sotto effetto di droghe.

Le cose non migliorano molto quando la band entra nello studio di registrazione gallese di Owen Morris per lavorare al secondo disco. Le sessioni sono inaugurate da un party a base di ecstasy della durata giusto giusto di un paio di settimane: se il buongiorno si vede dal mattino... Queste dinamiche letteralmente tossiche, assieme alle continue sparizioni di Ashcroft, mandano quasi ai matti il povero Morris, che dalla frustrazione arriva a scagliare una seggiola contro una finestra.

Proprio questo Ashcroft presente/assente diventa il motore del disco, e ciò sarà aspetto di non poco conto nel prosieguo della carriera dei Verve. Il cantante è a pezzi ed è reduce da un amore finito. Nelle ballate di A Northern Soul traspare questo malessere, eppure c’è anche tanta grinta nel modo di cantare, c’è un’energia anomala che porta a empatizzare con le sue condizioni ricavandone carburante per andare avanti nonostante tutto. Sembra di scorgere un raggio di sole sbucare fra quelle Stormy Clouds, per riprendere il titolo dell’ultima canzone in scaletta. Non è un caso: verso la fine delle registrazioni del disco, Ashcroft avrà ritrovato l’amore. E guadagnato centralità nella band, relegando McCabe a un ruolo secondario e modificando così la natura stessa dei Verve da formazione neopsichedelica impastata nel suono a gruppo pop-rock facilmente identificabile nel suo ieratico leader. 

D’altronde quelli sono gli anni del Britpop, di gente come i fratelli Gallagher (Oasis), che si pone in modo frontale davanti ai fan e alla stampa. Tra l’altro fra Verve e Oasis c’è stima: A Northern Soul (il brano) è dedicato a Noel Gallagher, che ricambia con Cast No Shadow, contenuta in (What’s the Story) Morning Glory? omaggio «al genio di Richard Ashcroft» si legge nelle note di copertina.

A sorpresa, Ashcroft decide di sciogliere il gruppo tre mesi dopo l’uscita di A Northern Soul, per poi riformarlo nel giro di poche settimane senza includere McCabe. Che verrà reintegrato quando i pezzi di Urban Hymns saranno già quasi tutti scritti. Da Ashcroft. Parliamo proprio di quel disco lì, quello con dentro pezzoni come Bitter Sweet Symphony, Lucky Man, The Drugs Don’t Work, Sonnet.

A Northern Soul suona così come un ponte fra i Verve degli inizi e quelli acclamati sulla scena mondiale. Una dozzina di pezzi d’impatto - a tratti quasi fisico - che si ostinano a non invecchiare. Mica male per essere l’opera di quattro musicisti sfatti e sfiniti.

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I 30 anni di A Northern Soul dei Verve (Radio Monnezza, Rete Tre)

RSI Cultura 17.06.2025, 21:00

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  • Maurizio Forte

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