Iniziamo con una festa: It’s My Party di Lesley Gore (1963), che per la cantante statunitense fu un grandissimo successo, ma forse in pochissimi sanno che dietro, in qualità di produttore, arrangiatore e direttore artistico, c’era un giovanissimo Quincy Jones.
Allora Jones era reduce dalle lezioni parigine di un personaggio molto importante, la direttrice d’orchestra Nadia Boulanger. Ma c’è dell’altro. Quincy Jones e Miles Davis si ritrovano insieme in un periodo in cui Parigi è il crocevia culturale molto più di Londra. Parliamo del periodo pre-Beatles, quello di A Kind of Blue (1959) di Davis, quando arrivano a Parigi per suonare nei club di quella che, in quel momento, è forse la città più jazz del mondo, forse ancor più di New York.
Quincy Jones dirà che siccome in America non poteva neanche arrangiare per gli archi, imparò l’arte a Parigi. E qui ritorna la figura importante di Boulanger, che poi era l’insegnante di Pierre Boulez, così come suoi allievi furono personaggi del calibro di Leonard Bernstein e Astor Piazzolla. Oggi la chiamerebbero una “coach”.
Rimanendo in tema di arrangiamenti, nel documentario Quincy è significativo il momento in cui il Nostro tira fuori questo librettino con tutti quelli che ha fatto. È esemplificativo di come i grandi di quell’epoca imparassero la comunicazione, a stare cioè insieme al pubblico, a convincerlo proprio attraverso questi arrangiamenti che poi si portavano dietro per tutta la vita.
Quincy Jones, rispetto ad esempio a un Morricone, rimane più arrangiatore, più produttore. Ma anche a livello di scrittura ha fatto la sua parte. In fondo, tu non sei mai quello che sei, ma sei quello che il pubblico vuole che tu sia. Perché se è esistito un Quincy Jones europeo, quello è stato Ennio Morricone. O meglio, Quincy Jones è stato l’Ennio Morricone americano. Se facciamo una stima, il conto dei titoli equivale, come equivale il conto dei titoli di arrangiatore di Ennio Morricone. Solo che Ennio Morricone, essendo stato associato a film molto importanti che hanno cambiato il cinema stesso, rimane nella memoria popolare quella cosa lì. Quincy Jones faceva sì le colonne sonore di film altrettanto ottimi; soprattutto lavorò per molti telefilm: compose molte sigle di serie tivù americane, tra cui quella di Ironside. Quindi Quincy Jones è associato a un cinema molto meno impegnativo di quello del compositore italiano. Anche se poi diventerà pure produttore cinematografico.
Verso gli anni Sessanta si intensifica la corsa allo Spazio e alla conquista della Luna, che vede in competizione (anche lì) le due superpotenze dell’epoca, USA e URSS. Nel 1959 parte la prima sonda Luna 2, poi si arriverà all’allunaggio del 20 luglio 1969. L’equipaggio dell’Apollo 11 si porta nello Spazio Fly Me to the Moon di Frank Sinatra, arrangiato per “The Voice” da Jones.
Frank Sinatra ascolta l’arrangiamento di questo pezzo, che in origine si intitolava Let Me Swing among the Stars, titolo che all’annuncio del programma spaziale americano da parte di Kennedy verrà trasformato in Fly Me to the Moon. Sia Sinatra che Jones erano molto attenti a quello che il pubblico o l’americano medio stava vivendo. E cos’è che stava vivendo in quel momento? Il fatto che saremmo andati sulla Luna.
Quincy Jones ha firmato uno dei pezzi strumentali più riconoscibili di sempre, Soul Bossa Nova. Chi ha studiato orchestrazione forse ricorderà un manuale, il Mortari/Casella, conosciuto fin dagli anni ’50. In quelle pagine si parla di tutto ciò che stava arrivando dai movimenti come il jazz, e del loro modo di sovvertire completamente l’utilizzo degli strumenti.
Ascoltando Soul Bossa Nova viene proprio in mente questo: sono dei tromboni, è una brass band ma sembra qualcosa d’altro, come una macchina tutta scassata che frena male. Non facciamoci ingannare dalle immagini evocate: questo pezzo è un totale capolavoro della produzione. E diventa anche un numero uno nelle classifiche. Erano gli anni in cui i pezzi strumentali arrivavano al numero uno in classifica, erano delle hit.
Il pezzo è stato ripreso nella serie cinematografica di Austin Powers perché ha questo senso molto giocoso. Però è interessante perché dentro c’è un po’ di tutto: c’è Phil Spector, questo riverbero, questo wall of sound molto preciso, però molto meno anarchico di quello di Spector. Sembra che prenda Tom Jobim e da un’altra parte John Coltrane e li mischi facendo un pezzo di easy listening, che al di là delle etichette non era una cosa facile, ma è la definizione che viene data a questo pezzo.
Quincy Jones è stato uno scopritore di talenti ma anche un imprenditore, di quelli appartenenti alla categoria degli innovatori. Nell’industria discografica mondiale ha lasciato il segno con la sua etichetta, la Qwest, condotta in joint venture con la Warner Bros. Con la Qwest mette sotto contratto i Joy Division di Love Will Tear Us Apart, poco prima che il cantante della band, Ian Curtis, si tolga la vita. I superstiti si riorganizzeranno nei New Order, che negli USA usciranno proprio per Qwest. Stranamente i New Order sono un gruppo che, con altri parametri, fa la stessa cosa di Quincy Jones: un groove molto strano, un misto di Italo disco e Kraftwerk.
Finché non arriva Michael Jackson, e con lui la consacrazione.
Quincy Jones contribuisce a creare il fenomeno Michael Jackson. Off the Wall, disco di Jacko del 1979, è totalmente rivoluzionario.
Jones è stato una delle poche figure importantissima sul palco e ancor di più dietro le quinte. Assieme a Bobby Colomby crede in un “rifiuto” della Motown, perché all’etichetta di Berry Gordy nessuno credeva in Michael Jackson. Jones capisce il suono globale, perché il pezzo è scritto da un certo Rod Temperton, proveniente da un posto molto depressivo in Inghilterra che si chiama Grimsby. In Off the Wall Michael Jackson ci mette voce e talento, ma il disco è di Quincy Jones e Rod Temperton. È un album che rende chiaro cosa fosse all’epoca un produttore.
Gli arrangiamenti di fiati non sono suoi ma di Jerry Hey. Perché Jones è produttore, deve gestire il gusto. Una “arroganza umile”, la sua, che di certo avrebbe potuto curare tutti gli arrangiamenti, se avesse voluto. D’altronde era lui stesso a ripetere che bisogna avere un’ambizione talmente grande da bruciare qualsiasi ego, per andare oltre te stesso e includere gli altri.
Quincy Jones diventa una sorta di medium e di collettore di tutto un movimento afroamericano. Se si pensa a lui si pensa al riscatto, a una persona che ha documentato la sua vita inquadrandola da fuori, includendo alla fine un sacco di persone insieme a lui.
È un paradosso, ma si può dire che gente come Quincy Jones e Nile Rodgers degli Chic sia stata più importante per l’emancipazione degli afroamericani che lo stesso Martin Luther King. Ovviamente fatte le debite proporzioni. La musica crea comunità, il linguaggio della musica è stato estremamente importante.
Creando Michael Jackson, ha addirittura creato la prima star a livello globale, ed era un afroamericano. Prima le star globali non esistevano. Sinatra non era globale come lo sono stati i Beatles più tardi, ma i Beatles sono un gruppo, attenzione. Gli Zeppelin sono un gruppo, è una cosa diversa. Qui parliamo di un artista che fa pop e diventa una star globale, un fenomeno di costume generale.
Quincy Jones è stato una figura trasversale, capace di passare dall’epoca del bebop (che lui suonava in qualità di trombettista) al pop, all’hip hop e, come diceva lui, alla fine al laptop. Lasciando ovunque il segno. Ancora oggi i produttori inseguono la perfezione racchiusa in un pezzo come Billie Jean, nel quale si sentono tante cose ma organizzate in modo semplice.
Quincy Jones è morto il 3 novembre 2024 all’età di 91 anni.