L’estate 2025 è stata, per certi versi, anche l’estate dei Coldplay: la band di Chris Martin è stata al centro di uno dei fatti di colore più chiacchierati della stagione, con la kiss cam che durante uno dei loro mega-concerti negli Stati Uniti - attualmente questo Music of the Spheres World Tour è il secondo tour con più incassi di sempre, oltre il miliardo di dollari, dietro alla sola Taylor Swift, che tra il 2023 e il 2024 ha stabilito un primato che vale quasi il doppio - ha pizzicato due innamorati che si abbracciavano, salvo scoprire successivamente che si trattava di una relazione clandestina, che avevano entrambi già famiglia e mettendoli, peraltro, nei guai sul lavoro per questione di possibili conflitti d’interesse. È storia nota. Ma anche l’estate di 25 anni fa era stata nel segno del gruppo britannico, che all’improvviso aveva alzato la testa con l’uscita di Parachutes (10 luglio 2000), il suo disco di debutto. Un debutto che oggi è considerato un cult di quell’epoca, ma senz’altro discreto nei modi: nessuno - o forse tutti, è questo il gioco - avrebbe mai immaginato che quei quattro bravi ragazzi, figli del college e di Londra, oltre che dell’indie britannico, sarebbero diventati artisti… da kiss cam.
25 anni di Parachutes, il primo Coldplay (30 all’ombra, Rete Tre)
RSI Cultura 06.08.2025, 12:30
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La popolarità ha un prezzo, loro ne hanno raggiunta una enorme - c’è chi, almeno per l’impatto sull’immaginario collettivo, li considera gli eredi degli U2 - ed è chiaro che qualcosa, per strada, deve pur perdersi. È una caccia al fatidico salto del delfino, quel momento in cui un’opera - che sia una saga di film, una serie tv, ma anche appunto un musicista - spezza la propria traiettoria ascendente e comincia a ripiegarsi su sé stessa. L’inizio, se non della fine, perlomeno di una deriva artistica. Di certo per i Coldplay non è il successivo e bellissimo - ma meno ingenuo, ovviamente, del primo - A Rush of Blood to the Head (2002): la prima infiltrazione pop è il successo globale del brano Fix You (2005), tutt’ora un must ai concerti, ma il vero passo falso (perché più lungo della gamba) è il disco Viva la vida or Death and All His Friends (2008), mentre il singolo scala-classifiche A Sky Full of Stars (2014), in collaborazione con un decano dell’edm come il dj Avicii, ha rappresentato la pietra tombale su ogni ambizione indie-rock, aprendo al contempo a questa fase, che dura tutt’oggi, di live giganteschi, messaggi ottimistici e positivi - tra cui gli stessi live sostenibili a livello ambientale, e per le loro casse non è una banalità - e soprattutto un enorme e più variegato riscontro di pubblico.
E Parachutes? Quello che resta uno dei migliori album d’inizio millennio, stretto tra il Britpop di casa loro che andava a sfumare e l’ultima fiammata indie degli anni immediatamente successivi (gli Strokes, gli stessi Arctic Monkeys, poi nulla più, o quasi), sembra soprattutto una promessa non mantenuta. È un lavoro di grandi canzoni, per lo più sussurrate, lontane dall’overacting che in tanti, tra i fan storici, gli imputano oggi, e che è comunque una delle chiavi del successo attuale. Con i Radiohead che, attraverso Kid A (settembre 2000), stavano per tirarsi via dal rock stesso, in direzione più sperimentale, Martin e soci erano i successori di Thom Yorke, con gusto calibrato per le melodie (Shiver, Don’t Panic), delicatezza, la giusta fragilità e poco, pochissimo maledettismo. Il rock intelligente e dei bravi ragazzi, insomma, quello che “piace alla gente che piace”. Non certo una formula che avrebbe potuto riempire gli stadi, ecco. Eppure il seme del grande successo era già lì, nei quattro minuti e mezzo di Yellow, ballata da una manciata di accordi e un video - quando all’epoca, ancora, i videoclip servivano - iconico che da lì a poche settimane li avrebbe lanciati in tutto il mondo. Classe e semplicità, l’immediatezza di una canzone che si racconta attraverso un solo colore, e non è neanche il nero, diventato il primo pass verso un futuro diverso. Nonché, oggi, un brano che in scaletta rappresenta uno dei momenti clou, ponte tra l’indie che fu e il pop da arena che sarà.
Per questo è difficile accusarli di tradimento. In Parachutes, che riascoltato oggi non è neanche invecchiato, c’erano già i Coldplay di oggi, seppur al netto delle decine di svolte artistiche che avrebbero preso da lì in avanti. Se a primo impatto il disco puntava a una nicchia, il successo di Yellow deve aver convinto Martin e gli altri - com’era già successo, peraltro, a Bono Vox con gli U2, ma non ai Radiohead - a provare a uscire dall’underground e a giocarsi le proprie carte tra i grandissimi, cosa che peraltro già coltivavano, pur senza esserne sicuri del tutto, fin dagli anni Novanta. Partita vinta, s’intende, seppure il prezzo da pagare è stato quello di lasciarsi alle spalle ogni velleità indie, ogni sogno antagonista di gioventù. Da lì ne avrebbero fatte tantissime: duetti con Rihanna e i BTS, concerti da centinaia di migliaia di spettatori, spot televisivi, vere e proprie hit e passaggi, a volte, a vuoto. Ma Parachutes, per la sua natura, oltre che un piccolo classico, suo malgrado resta una sorta di romanzo di formazione in dieci tracce. E che tracce.