Scena di apertura: viaggio Lugano-Venezia. Gita scolastica di terza liceo. Da poche ore le ganasce del mio walkman stavano ruminando la cassetta di “Dummy”, primo album dei Portishead. Testimone un mio attonito compagno di scuola – anche di stanza in quell’occasione – giorno e notte, perfino al risveglio, ne ascoltavo un pezzo in particolare, “Strangers”. Quando la canzone terminava, rimandavo indietro il nastro e la facevo ripartire. Non so quante volte lo abbia fatto. Il mio compagno non riusciva a capacitarsi di questo riascolto compulsivo ma essendo anche uno dei miei migliori amici non ebbe nulla da ridire. Qui la versione dal vivo della canzone, giusto per far capire di cosa sto scrivendo:
Parto dal mio ricordo personale perché della canzone di cui sopra, e in generale di tutto il disco, mi colpì l’innodia. Parlare di “Dummy” significa però descrivere una serie di strati, musicali e umani, che sovrapposti e messi in comunicazione tra loro lo hanno reso uno dei dischi chiave per comprendere il decennio in cui uscì.
Alla base di tutto c’è la passione per l’hip hop americano di Geoff Barrow. Nei primi anni Novanta Barrow è un giovanotto già attivo nell’ambiente musicale: collabora con Massive Attack e Neneh Cherry, remixa Primal Scream, Depeche Mode e Paul Weller. A proposito dei Massive Attack: sono loro a puntare sulla carta della musica la bandierina della città inglese di Bristol e del suo pregiato prodotto locale: il trip-hop. Etichetta sardonica che spiega in parte ma non del tutto cosa si stava muovendo da quelle parti. Per chiudere sui Massive Attack, nel 1991 erano usciti con “Blue Lines”, commistione al bacio di hip hop USA, club culture britannica e artifizi da studio del dub giamaicano. In questo stesso disco compare anche Tricky, che nel triangolo bristoliano occupa il vertice sinistro, aggettivo scelto più per il suo stile inquieto che non per la posizione nell’immaginaria figura geometrica. L’altro vertice, l’avrete capito, sono i Portishead.
La radice hip hop è dunque ciò da cui spunta il primo germoglio dei Portishead, con Barrow che si diverte a maneggiare suoni e rimaneggiare canzoni altrui, produrre basi e scratchare coi vinili. Non si vede ancora la svolta, che arriva sotto forma di incontro. Durante una pausa caffè del programma occupazionale che entrambi stavano seguendo, Barrow conosce Beth Gibbons, cantante da pub. Chiacchierando, i due trovano convergenza di interessi, tanto da imbastire un sodalizio. Gibbons diventerà molto più della “voce dei Portishead”: con i suoi tormenti, le corde vocali impastate dalle tante sigarette, il disincanto ma anche la profondità del suo sguardo sulle cose, recapiterà a orecchie di tutte le estrazioni il messaggio del terzetto esponendolo pure a innumerevoli tentativi di imitazione. A un certo punto la formula ritmica hip hop+chitarra elettrica+voce femminile diventerà quella preferita per farsi notare dal pubblico. E, ovviamente, firmare contratti discografici.
Già, abbiamo parlato di terzetto e di chitarra evocando così il terzo Portishead: Adrian Utley. Chitarrista jazz, cresciuto con le lezioni di Jimi Hendrix, lungo la via è rimasto folgorato dal rap dopo aver ascoltato i Public Enemy. Come Barrow e Gibbons, anche Utley porta la sua sensibilità musicale. Velluto chitarristico appena sporcato da una patina di effetti che si cuce a meraviglia con il resto della tessitura musicale.
Le sporcature sono qualcosa di cercato in “Dummy”, sono ciò che rende organico un suono che altrimenti avrebbe rischiato di uscire algido, meccanico, distante. Il crepitio di un vecchio trentatré giri, le batterie filtrate, la scelta di strumenti quasi dimenticati (vedasi alla voce “theremin”) oppure mezzi guasti: tutto quanto concorre a dare calore al disco. Perfino i campionamenti, i frammenti di altre canzoni usate per costruire le basi, provengono da vinili malconci. È il caso della “Ike’s Rap II” di Isaac Hayes, campione portante di “Glory Box”.
In questo discorso rientra pienamente la voce di Gibbons, la quale non capisce il motivo dei tanti complimenti che riceve. “Se volessi diventare una brava cantante – si schermisce – prima di tutto dovrei smettere di fumare e poi dovrei prendere lezioni di canto”.
È in una dichiarazione come questa che si possono cogliere i riflessi “indie rock” dei Portishead. Nonostante le atmosfere siano distanti dagli stilemi rock’n’roll, “Dummy” arriva ai fan del genere perché in fin dei conti è fatto di canzoni, se ne può ritrovare un filo. Cosa non da poco, Beth Gibbons ha lo spessore di una frontwoman con la quale si può stabilire empatia. E poi la presenza della chitarra elettrica deve aver aiutato. In più, la malinconia che permea l’intero album costituisce rifugio accogliente per chi non ha abbracciato appieno la restaurazione Made in the UK orchestrata da Oasis, Blur e tutta la compagnia del Britpop.
I Novanta sono anni di incroci di stili, dell’unione fra tribù diverse. Rocker, rapper e raver si mescolano e i dischi che ne nascono descrivono questo fermento. “Dummy” fa parte a pieno titolo di queste gioiose e proficue collisioni. Riassumendo, giusto per fare una sommaria listarella della spesa, dentro ci troviamo: l’hip-hop, il soul, l’elettronica, il blues, il jazz e il rock.
Nel disco emerge poi un senso cinematografico della composizione, risultato della passione dei Portishead per le colonne sonore dei vecchi film di spie e di quelle degli spaghetti western firmate da Ennio Morricone. Un aspetto dichiarato nell’uso, in “Sour Times”, di un campione da “Danube Incident” di Lalo Schifrin, dalla colonna sonora di “Mission: Impossible”. E qui lasciatemi tirare fuori un altro ricordo personale. Sulla scia di queste tendenze, noi scimmiati di musica cominciammo a cercare e acquistare qualunque raccolta di colonne sonore, in particolare dei generi appena citati. Fu un periodo di preziose riscoperte.
Sempre a proposito di legami con il cinema, i Portishead realizzeranno anche un corto a tema spionistico “To Kill a Dead Man”, che allego, casomai vi venisse la curiosità di guardarlo. I ritmi non sono travolgenti, ma dovesse prendervi il ghiribizzo…
Gli stessi Portishead scompongono e riassemblano i loro pezzi o quelli altrui alimentando la cultura del remix, che si sta facendo largo anche nei circuiti più commerciali. Artisticamente parlando, una tendenza che risponde alla curiosità di sentire come suona una canzone con addosso un altro abito, oggi ampliatasi a dismisura con la rete. Tornando ai rapporti con i Massive Attack, a questo proposito segnalo una bella rilettura di “Karmacoma” in cui Barrow riprende un basso di “Histoire de Melody Nelson” di Serge Gainsbourg e Utley fa scivolare una chitarra decisamente hendrixiana. L’ho messa come “bonus” nella selezione Spotify.
Come accennato qualche riga più su, in modo incolpevole questo album darà la stura a un nugolo di epigoni. In molti casi gli esiti si ridurranno a poco più che tappezzeria sonora. Certi risultati non si possono ottenere semplicemente replicando una ricetta. Servono idee, una visione e la complicità fra talenti. Tutti elementi che i Portishead posseggono, seppur non ostentandoli.
Più di tre milioni e mezzo di copie vendute. Niente male per un disco dal respiro così notturno, i cui artefici dimostrano una certa insofferenza per i rituali della promozione.
I Portishead non hanno mai amato le interviste e i premi li hanno accettati quasi obtorto collo. Presi dai loro progetti individuali, in trent’anni hanno prodotto tre dischi in studio perché si mettono a scrivere musica se e quando gli va di farlo. Non sono pose antidivistiche: se ascoltiamo bene, dentro questa compostezza possiamo ancora avvertire il battito felpato delle undici canzoni di “Dummy”.
P. S.: ancora oggi “Strangers” posso ascoltarla fino a due-tre volte di seguito. Oh sì. Chissà cosa direbbe il mio amico.