Musica d’autore

Enzo Jannacci: ci vuole orecchio, ma anche cuore

Dall’infanzia difficile alla musica come rifugio, passando per Chopin, Gaber e la Milano degli ultimi: un viaggio tra ironia, poesia e verità con uno dei più grandi cantautori italiani

  • Oggi, 15:01
Enzo Jannacci
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Di: Claudio Ricordi/Red.  

«Non lo ascoltavo da anni. Non l’ho mai più ascoltato», confessa Enzo Jannacci all’inizio dell’intervista, quando gli viene fatto riascoltare un suo brano dei primi anni ’60. È un momento di commozione, ma anche di lucidità: «Mi sono emozionato perché ho capito delle cose che rifarò. Da quella disperazione lì, non mangiavo, non dormivo. È venuto fuori un disco vero».

Jannacci, medico, pianista, cantautore, attore, è stato tutto questo e molto di più. Un artista che ha saputo raccontare l’umanità marginale con ironia e compassione, senza mai cadere nella retorica. «Ho fatto canzoni con un po’ di surreale, ma sempre con l’immagine del diverso», spiega. E in effetti, nei suoi testi, c’è sempre spazio per chi resta ai margini, per chi “chiede un passaggio che non è mai passato”.

Un’infanzia tra musica e miopia

La sua formazione musicale inizia presto, con una fisarmonica regalata dalla madre. «Suonavo tutto a orecchio. Anche Il trovatore», racconta. Ma è il pianoforte a diventare il suo strumento d’elezione. «Ci vuole orecchio», dice, citando se stesso con ironia. E aggiunge: «Per saper armonizzare come si deve, bisogna saper suonare in tutte le tonalità».

Il percorso scolastico è accidentato: «Ero immaturo, avevo il piede del 42 e ero alto 1,48. Non vedevo la lavagna, ero miope». Ma la passione per la medicina lo spinge a studiare, a recuperare, a crescere. «Alla fine ho saltato la quarta e fatto subito la quinta. Ero diventato troppo intelligente da un momento all’altro», scherza.

La musica come rifugio e specchio

Jannacci parla del pianoforte come di un compagno di vita: «È l’unico che non mi ha fatto uscire con tutte le ossa rotte». E nella parte più poetica dell’intervista, si lascia andare a una lunga “lettera” che è quasi un testamento artistico: «Lettera per mio figlio, che mi ha guardato cantare come fossi io il figlio. Lettera per mia moglie, che non ha avuto un marito, ha avuto solo voglie».

C’è spazio anche per l’ironia tagliente: «Lettera consegnata a voce a tutta la gentile, normale, ipocrita massa di rompicoglioni». Ma è un’ironia che non ferisce, che serve a difendersi, a sopravvivere.

Un’eredità viva

Alla domanda su cosa significhi oggi riascoltare quei brani, Jannacci risponde con una sincerità disarmante: «Adesso mangio, ma mi tocca non mangiare per farlo ancora così». È il paradosso dell’artista che crea nel dolore, ma che non può vivere sempre nel dolore.

Enzo Jannacci ci ha lasciato un patrimonio musicale e umano inestimabile. E forse, come dice lui stesso, il suo epitaffio dovrebbe essere semplice: «Scrivetelo o a pifferi o azoto. Arrivederci».

26:27

Intramontabile Jannacci

Musicalbox 04.06.2025, 17:00

  • ANSA
  • Claudio Ricordi

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