Nato a New York il 15 dicembre 1910, John Henry Hammond è un ragazzo di buona famiglia. Di ottima famiglia. Come tutti i ragazzi viziati, un po’ figli di papà, deve deviare da qualche parte così da non rischiare di rovinare l’impero di cui è erede. È nipote di un grande imprenditore e studia pianoforte, violino e violoncello. Insomma, un po’ di musica ne sa.
Produttore discografico, musicista, critico musicale, diventerà il punto di riferimento di tutto un movimento culturale e di una industria discografica che si consoliderà sotto il suo dominio.
La prima firma su un contratto Hammond la ottiene da Billie Holiday. Senza la quale, forse, non sarebbero esistiti né Frank Sinatra, né Lou Reed, né i Velvet Underground. Billie Holiday è la radice di tutto.
Si prende dei rischi, Hammond, perché mette sotto contratto artisti che sono dei game changer, e che sono afroamericani. Ci concentriamo molto, in questi racconti, sull’influenza che la musica afroamericana ha avuto su quella moderna, su quella più importante. Non avremmo oggi un certo tipo di pop se non ci fosse stata la cultura dei musicisti di colore. Hammond lavora alla Columbia, di proprietà della CBS, che non può pubblicare Strange Fruit di Holiday perché persona di colore. Il disco viene dato alla Commodore, un’altra etichetta. Forse, se non ci fosse stato questo ragazzotto della upper class newyorchese, non avremmo neppure avuto un’etichetta come la Motown, forse non conosceremmo ancora la musica nera.
Ma tutti gli artisti che mette sotto contratto sono rivoluzionari, sono tutti game changer.
Per capire il peso del Nostro nella storia della musica, valga una citazione di Eric Hobsbawn: «Il ruolo di Hammond come scopritore e rilevatore di talenti dal 1933 alla sua morte non aveva uguali. Si basava non solo sulla sua sbalorditiva capacità di giudizio e sulla sua conoscenza della materia, ma anche sulla sua capacità di mobilitare le tre fondamentali componenti del successo di New York e di conseguenza della nazione: amicizie personali, un pubblico metropolitano orgoglioso della combinazione di liberalismo e snobismo dei newyorkesi e una comunità dello spettacolo decisa a sfruttare questo mercato».
Tra i nomi da lui scoperti, Count Basie, Leonard Cohen, George Benson e un grande padre della canzone come Bob Dylan.
Like a Rolling Stone è un pezzo che cambia le coordinate della musica. Parola di Bruce Springsteen (che rincontreremo tra poche righe), per il quale il pezzo fu fondamentale durante l’adolescenza, quando stava cercando sé stesso e si stava emancipando, ciò che poi è il senso della canzone. Tanto che, quando Bob Dylan chiese a Springsteen: «Cosa posso fare per te, ragazzo?» il Boss gli rispose: «L’hai già fatto, Bob».
Tornando a John Hammond e alla sua importanza come direttore artistico, questa è confermata dalla durata di Like a Rolling Stone: 6 minuti in un’epoca in cui se non facevi un pezzo di 2’50” in radio non passavi. Eppure il brano sembra durare 1’50”. All’organo c’è Al Kooper, alla produzione Tom Wilson, afroamericano. Non è che prima di Dylan questa musica non esistesse, ma Hammond inquadra il personaggio con cui divulgarla.
Ed eccoci a Springsteen. Che John Hammond scrittura in tempi non sospetti col primo disco, Greetings from Asbury Park, NJ. Album importantissimo. Per dire, Bowie lo giudicava un capolavoro quel disco, quello di Blinded by the Light, Growin’ Up, Spirit in the Night. Pezzi molto importanti. Piaccia o no, Bruce Springsteen è stato un artista estremamente magnetico. Saranno poi Clive Davis e più tardi Tommy Mottola a stabilire Bruce Springsteen come star globale, o meglio come musicista globale, perché in realtà Springsteen è un anti-star per eccellenza. Un po’ come ai tempi di Dylan, John Hammond coglie un altro momento di rottura, un desiderio di fuga, proprio come canta Springsteen in Born to Run.
John Hammond muore il 10 luglio 1987 nella sua New York.