Musica e storia

“White Christmas”: Saigon è caduta

Il brano di Bing Crosby fu il segnale in codice per il ritiro USA dal Vietnam. Come la musica racconta il conflitto che cambiò la società statunitense

  • Oggi, 10:50
Caduta di Saigon

Soldati nordvietnamiti a Saigon dopo la caduta della città

  • Imago/UIG
Di: Andrea Rigazzi 
A Saigon la temperatura è di 40 gradi e sta salendo

Radio militare USA in Vietnam

A cui seguì White Christmas di Bing Crosby.

Cinquant’anni fa, era la fine di aprile del 1975, la radio militare USA in Vietnam diffuse questo bollettino meteo, in realtà un messaggio in codice per segnalare l’inizio dell’operazione “Frequent Wind”. Era giunto il momento di ritirarsi. Tra il 29 e il 30, le ultime 7’000 persone abbandonarono in fretta e furia la capitale del Vietnam del Sud. Saigon era caduta, di lì a poco i Viet Cong comunisti avrebbero fatto il loro ingresso in città. Finiva, per gli Stati Uniti, la guerra del Vietnam.

Il conflitto nel paese asiatico aprì una serie di ferite nella società a stelle e strisce, con ripercussioni anche nel resto dell’Occidente. Breve spunto d’attualità: negli ultimi anni si è assistito a una distensione tra Stati Uniti e Vietnam, in nome degli affari e del contenimento del gigante cinese. Fra Washington e Hanoi l’atmosfera non è più quella degli anni ‘60-’70, anche se le ultime vicende daziarie un po’ hanno raffreddato gli slanci. Certo, i tempi cambiano e con esso il mondo, ma gli eventi appena riassunti aprono una riflessione sul tanto sangue sparso in quei decenni di guerra. Discorso che ci porterebbe lontano, troppo lontano.

La prima guerra fortemente mediatizzata, seguita da giornalisti e testate di tutto il mondo, è stata al centro di un approfondimento di Millevoci curato da Axel Belloni e Marcello Fusetti. Personaggi, eventi, antefatti e motivi del conflitto, così come la reazione della società civile e degli attivisti per la pace, sono stati cuciti con la musica che racconta quei drammatici anni.

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Cinquant’anni dalla fine della Guerra del Vietnam

Millevoci 30.04.2025, 09:30

  • Keystone
  • Axel Belloni e Marcello Fusetti

Ogni reduce USA ha una canzone che lo riporta sui campi di battaglia. Fanno parte di questa “scaletta” titoli come Chain of Fools di Aretha Franklin, il country di Green, Green Grass of Home di Porter Wagoner (non serve sottolinearne il senso di nostalgia), The Letter dei Box Tops (che richiama alla mente gli scambi epistolari con gli affetti lasciati a casa), (Sittin’ on) The Dock of the Bay di Otis Redding, Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival. Quest’ultima divenne uno dei brani-manifesto dei movimenti di protesta contro la guerra in virtù della sua critica all’alta società americana, così distante dal conflitto (alcuni dei rampolli che riuscirono a evitare la leva diventeranno presidenti degli USA, e la cosa non va giù a qualche commentatore).

Mentre il pezzo dei Creedence assumeva la prospettiva dei ragazzi delle classi popolari arruolati e spediti in prima linea, ce n’è un altro uscito in quegli anni che è basato su un episodio specifico - e tragico - avvenuto il 4 maggio del 1970. Alla Kent State University, in Ohio, durante una manifestazione contro la guerra, i militi della Guardia Nazionale aprirono il fuoco sui partecipanti uccidendo quattro studenti. Da questi fatti nacque Ohio di Crosby, Stills, Nash & Young.

La protesta contro la guerra in Vietnam fu uno degli elementi caratterizzanti di quel periodo, e non si limitò ai soli Stati Uniti. Qualche passo indietro sulla linea del tempo: nel 1966 Gianni Morandi pubblicò C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones. Il testo parla di questo giovane che gli regala la chitarra perché richiamato in America, da dove partirà soldato per il Vietnam. Canzone a lungo censurata dalla Rai, che preferiva mandare il lato B del disco (Se perdo anche te) così da non fare uno sgarbo agli Stati Uniti, paese amico.

Alla fine del conflitto esplose il dramma dei reduci, di quelli rientrati a casa in condizioni psicologiche fragili, spaesati, magari con una dipendenza dalle droghe, abbandonati dal loro paese. Stato di cose che Bruce Springsteen trasformò in uno dei suoi più grandi successi: Born in the USA. Uscita nel 1984, non era l’inno patriottico che poteva sembrare. Un’interpretazione che però ne favorì l’inserimento nella campagna elettorale di Ronald Reagan e in seguito di altri politici repubblicani. Scelte da cui il Boss ci tenne a prendere le distanze. Del brano esiste la versione demo, solo voce e chitarra, che ben ne sottolinea le inquietudini.

Fin qui abbiamo parlato della musica degli statunitensi in Vietnam. Manca qualche tassello su ciò che ascoltava e produceva la popolazione locale. Il capitolo sulle musiche tradizionali meriterebbe svolgimento a sé, e credo proprio che servirebbe un etnomusicologo. Al fronte, i Viet Cong del Nord erano sospinti da inni motivazionali con titoli eloquenti quali Liberare il Sud, Marcia della liberazione, Lo Zio è con noi nelle nostre marce (“Zio” era il soprannome del loro leader, Ho Chi Minh).

Nel Vietnam del Sud, invece, fioriva una produzione musicale ispirata al pop-rock occidentale, in particolare a quello che gli statunitensi avevano portato con sé allo sbarco in Indocina. Acid rock, soul psichedelico, funk venivano trasformati in dischi all’interno di studi improvvisati o negli edifici dell’esercito USA. Questi brani animavano poi la vita dei locali notturni di Saigon. Esempi se ne trovano nella compilation Saigon Rock’n’Soul – Vietnamese Classic Tracks 1968-1974.

Dopo la conquista di Saigon e la riunificazione del paese, i Viet Cong misero fuorilegge queste musiche in quanto eredità della presenza nemica. Sparì così un’industria del pop fra le più vitali dell’area asiatica. Sparì quel giorno in cui la radio delle truppe USA suonò White Christmas di Bing Crosby.

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