L’estate di Musicalbox propone una galleria di grandi produttori discografici che hanno fatto la storia del pop-rock. Figure fondamentali per lo sviluppo dell’industria musicale (e parliamo di “industria” senza voler attribuire giudizi di merito). Clive Davis è il primo nome di questa illustre serie.
Clive Davis nasce a Brooklyn il 4 aprile 1932. È produttore e fondatore di etichette discografiche (Arista, J Records). Avvocato, si ritrova a essere il capo della Columbia, che fa parte del gruppo CBS, nel mezzo di quella che è una vera e propria rivoluzione della discografia. Siamo negli anni ‘60. C’è Bob Dylan, c’è Woodstock, celebrazione della controcultura che aveva ormai preso piede. Davis porta la CBS, colei che aveva messo sotto contratto Sinatra, in nuovi, avventurosi territori.
Essendo avvocato è molto bravo a siglare i contratti, ma ha anche fiuto per le cose musicali. Lo sanno bene Simon & Garfunkel. Davis entra in studio per ascoltare i loro pezzi in un momento abbastanza drammatico della loro carriera, ovvero quando stanno lavorando al seguito di un successo colossale come Bookends, il disco contenente Mrs. Robinson. Davis si accorge della canzone meno notata da tutti: Bridge over Troubled Water, che è quasi nella testa di Paul Simon, il compositore principale del duo. Per qualche misterioso motivo, quella canzone Simon aveva deciso di farla cantare solo al sodale Garfunkel. Forse non ci credeva troppo neppure lui. Davis dice al produttore Roy Halee che la vera hit del disco è quella. C’è solo una mancanza: così suggerisce di aggiungere i cannoni dell’Ouverture 1812 di Čajkovskij al finale. È il trucco che la fa diventare un successo, nonostante il pezzo si apra con un’intro molto lunga e non rispetti il formato da 2’50” richiesto dalle radio di allora.
Davis ha fiuto ma sa anche essere controverso. Si mette in gioco con gli artisti che gli chiedono se è sicuro di ciò che dice, ricevendo immancabilmente da lui una risposta affermativa che non lascia spazio a incertezze. Persona di altri tempi, in un’industria che allora stava fiutando la nascita delle controculture. Davis capisce che c’è qualcos’altro. È curioso, e si reca a San Francisco, centro di queste nuove tendenze, per incontrare Janis Joplin, di cui si innamora (forse non solo artisticamente, fra i due si dice esserci stato anche un certo frisson).
Joplin non è l’unica artista di cui Davis intuisce il potenziale. Aveva messo sotto contratto per Columbia anche Aretha Franlklin, prima che questa passasse alla Atlantic di Ahmet Ertegün per poi tornare a lavorare con lui negli ’80 alla Arista. Poi possiamo citare Sly and The Family Stone, Santana, Springsteen, Chicago. E ancora tanti jazzisti, tra cui Miles Davis.
A proposito di Miles Davis, bisogna aprire il capitolo Bitches Brew, disco del 1970. Ancora oggi un riferimento su come fare i dischi. Senza Bitches Brew forse non avremmo avuto Brian Eno e Steve Reich. Miles si avvicina all’omonimo Clive in quanto fanatico di Sly and The Family Stone, di cui pare fosse invidiosissimo, così come si dice lo fosse delle rockstar. Tra i due non va bene da subito: pare che Miles piantò un cazzotto a Clive. Non erano tempi di correttezze politiche.
Clive Davis riesce a muovere le pedine del marketing rendendo Bitches Brew - un doppio album - il disco più venduto dell’anno e quello più venduto della storia del jazz. Sono suoni che rimbalzano tra i grattacieli di New York, più un disco ambient che jazz. Miles Davis riconoscerà più tardi l’influenza di Clive Davis sul disco, che consisteva nell’essere riuscito a capire quale pubblico andare a prendere. Un pubblico che leggeva anche Playboy, in quel momento rivista progressista che pubblicava le interviste a Hendrix, Sinatra e più tardi anche a Bowie.
Clive Davis viene messo alla porta da CBS per un difetto di forma, perché aveva incluso nelle spese il Bar Mitzvah (il battesimo ebraico) del figlio. Al quale avevano partecipato però tutti i dirigenti e tutti gli artisti della scuderia Columbia. Il confine fra professione e vita è molto labile in questi ambienti.
La leggenda racconta che in realtà fu la vittima sacrificale per via di un servizio su 60 Minutes molto polemico sull’intervento americano in Vietnam. Erano i tempi dell’amministrazione repubblicana di Nixon, e forse anche il fatto di lavorare con gli artisti della controcultura (che quella guerra la contestava) poteva aver inciso.
Uscito dalla Columbia, fonda la Arista, la sua seconda avventura discografica. Anche lì coglie un momento importante, perché prima di tutto decide di fare delle hit. La prima è Mandy di Barry Manilow. Un pezzo decisamente per il grande pubblico, che fa virtù della necessità di Davis di avere un successo immediato.
Dopo Mandy, Davis torna a muoversi in territori inesplorati. Siamo nel 1975-77, sta arrivando il punk. Dopo Manilow, firma Lou Reed, reduce dal periodo RCA. Poi è la volta di Patti Smith, la “Janis Joplin” del momento. Because the Night, uno dei suoi brani più celebri, in origine è un pezzo di Springsteen, che però non riesce a scriverne il testo. Siamo durante le sessioni di Darkness on the Edge of Town. È Jimmy Iovine a suggerire a Patti Smith, che stava producendo in quel periodo, di scriverne le parole nottetempo. Tutti e tre, manco a dirlo, sono personaggi legati a Clive Davis.
Questa carrellata sugli artisti che Clive Davis ha reso grandi termina con Whitney Houston, e in particolare con il film The Bodyguard (1992), interpretato dalla stessa Houston e da Kevin Costner. Davis va ad ascoltare i mix di I Will Always Love You, motivo portante della colonna sonora del film. Ascolta il monitor mix (i mix immediati che si fanno), in cui Houston canta senza accompagnamento nell’introduzione. All’ascolto del mix finale, che invece prevede una parte strumentale sotto quella cantata, Davis, stizzito, chiede di riavere il monitor mix. Il produttore del brano, David Foster, non la prende benissimo, ma alla fine deve arrendersi, perché quel pezzo è tale proprio per quell’inizio senza parti strumentali.
Clive Davis è simbolo di un’industria che dà ma che prende, di anni in cui il successo era un traguardo che si pagava, a volte addirittura con la vita. Ma è anche colui che ha dato forma all’industria del pop così come la conosciamo. Tanto che, nell’ambiente, chiedere: “Ma chi ti credi di essere, Clive Davis?” è un modo per indicare il personaggio che ha inventato lo stereotipo del discografico.