Musica funk

Sly Stone, un talento puro che sfidò le convenzioni

Con i suoi Family Stone infiammò gli anni ‘60 e ‘70 diventando un simbolo della controcultura. È morto all’età di 82 anni

  • 11 giugno, 15:06
Sly Stone

Sly Stone nel 1973

  • Imago/Avalon.red
Di: Maurizio Forte/Red. 

Il 9 giugno è stato un giorno triste per tutti gli amanti del funk. A funestare questa giornata, la notizia della dipartita di Sylvester Stewart. Che detto così forse non ci dice molto, ma se lo identifichiamo con il suo nome di battaglia musicale, Sly Stone, una lampadina nella testa ci si accende. Parliamo di uno dei massimi rappresentanti del funk di ogni tempo.

Raccomandatissimi, all’interno della produzione di Sly Stone, i suoi concerti, all’insegna di un’energia contagiosa, non solo per modo di dire. Perché la dimensione dal vivo è stata una grande influenza nel mondo della musica negli anni ’70. Non solo entro i confini della black music, perché il suo funk ispirò anche jazzisti del calibro di Miles Davis. [Leggenda vuole che Davis e i suoi musicisti abbiano ascoltato a ripetizione, per più di mezz’ora, la sua In Time]

Fillmore East, 1968. Fra le mura di uno dei templi assoluti della controcultura musicale dei Sessanta, Sly, alla guida dei suoi motivatissimi Family Stone, incise quello che rimane l’unico album dal vivo dell’intera discografia a nome di Sly & The Family Stone. Oltre naturalmente a quello di Woodstock, che ha consegnato alla storia la sua performance presso la fattoria di Max Yasgur.

In Live at the Fillmore East è lampante il potenziale di Sly alla fine degli anni ‘60. Qualcosa che la scena black non aveva ancora sentito, messo in pista dalla mente creativa del buon Sly. Uno che non era certo di primo pelo. Questo perché il suo bagaglio era ben fornito da anni e anni di lavoro dietro le quinte come autore e produttore, oltre che di musicista in gruppi costruiti ad hoc per le varie etichette per le quali aveva lavorato. La sua penna la troviamo dietro le produzioni di, tra i tanti, Joe Hicks, Abaco Dream, Billy Preston, Little Sister, Freddie & The Stone Souls, Bobby Freeman, Gloria Scott, i poppissimi e bianchissimi Bo Brummels.

Se il mondo del jazz e quello del rock osservavano interessati il suo lavoro alla ricerca di idee per rivitalizzare il loro suono, anche lui sapeva dove mettere le mani per tenere costantemente attuale il suo, di sound, e per alimentare quegli incroci culturali vero humus della sua musica. Non fu dunque un caso il tocco personale che diede a uno dei pezzi-simbolo della storia del rock, quella You Really Got Me dei Kinks che coniò il riff entrato dritto dritto nel patrimonio genetico del punk e del metal.

Don’t Call Me Nigger, Whitey è il più esplicito manifesto sociopolitico nella carriera di Sly Stone. Manifesto anche musicale, vista la sua piega funk-psichedelica che spalancò nuove porte alla musica nera di fine anni ‘60. Tema di una certa consistenza, che il Nostro poteva affrontare meglio di tanti colleghi, dal momento che la Family Stone fu praticamente il primo “esperimento” di gruppo funk misto, con la presenza di musicisti neri e bianchi. Cosa che se oggi è normale, negli anni ‘60 in America non era così scontata. Una scelta che fece fregandosene di ogni possibile giudizio sia da parte della comunità nera, intrisa di black power, sia di quella bianca, dove serpeggiava il razzismo. Aggiungiamo al discorso l’opinione del mercato discografico, che dettava le regole anche in questo senso. Sly andò contro tutto ciò e ne uscì vincitore.

Lo smodato uso di droghe diventerà la pietra tombale della sua carriera, mandando dapprima completamente in vacca la gestione dei Family Stone, poi incrinando la sua capacità compositiva, oltre che di arrangiatore e produttore, infine minando la sua credibilità professionale per via del declino mentale e fisico. Una discesa velocissima che cancellò dall’orizzonte musicale una delle più brillanti stelle della scena. Un viaggio nell’abisso tossico che gli ha portato via tutto e che riuscirà a raccontare, per sua fortuna, una volta uscito da una battaglia durissima contro il suo incubo. Vicende tormentate raccolte tra le pagine di Thank You, la sua autobiografia.

Non fosse stato per il suo rapporto con le sostanze, il suo genio avrebbe avuto ben altro da dire rispetto agli scadenti album usciti nei decenni successivi ai ‘70. Dischi che dimostravano solo quanto fosse messo male e avesse letteralmente gettato alle ortiche il suo smisurato talento.

Il concerto sul palco di Woodstock del 1969 porta il nome di Sly Stone oltre i confini della musica nera del tempo e consolida il suo ingresso ufficiale nella controcultura. Non solo un genio a livello musicale, ma anche un simbolo negli Stati Uniti ancora legati a formule di segregazione. Uno dei tanti tasselli che hanno composto la grandezza di un artista per troppi anni dimenticato nel suo buco nero fatto di droghe pesanti, sbertucciato dal music business e lasciato andare alla deriva. Un viaggio, il suo, che mostra entrambi i lati della medaglia del mondo dello spettacolo, di cui Sly ha vissuto in modo totale sia quello più splendente, sia quello oscuro.

Incredibile che sia sopravvissuto a sé stesso e ai suoi demoni fino all’età di 82 anni. Una cosa su cui nessuno avrebbe scommesso, probabilmente lui per primo. A testimoniarne la statura artistica sono la sua storia e il riconoscimento da parte delle giovani generazioni ricorse ampiamente alla sua musica per creare nuovi percorsi: basti pensare al rap, che ne ha campionato i più grandi successi, o alle varie band crossover. Il suo funk arricchito dalla psichedelia è diventato il principale libro di testo nel definire una nuova strada per la musica moderna. Una grandezza che cancella decenni di tragico oblio, restituendoci la figura di uno tra i più geniali musicisti di ogni epoca. 

59:43

Addio a Sly Stone (Radio Monnezza, Rete Tre)

RSI Cultura 10.06.2025, 20:00

  • Maurizio Forte

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