Musica d’autore

Gli 80 anni di Van Morrison, il mistico del rock

Abile nel coniugare i generi, da sempre il Leone di Belfast fa delle canzoni uno strumento di ricerca, artistica e spirituale

  • Ieri, 11:08
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  • Imago/Europa Press
Di: Gian Luca Verga 

Negli anni che frequentavo assiduamente il Festival di Montreux, dalla fine degli ’80 alla metà del decennio successivo Sir Van Morrison era un habitué, ovvero una presenza costante e attesa che infiammava la sala del Casino prima e dell’Auditorium Stravinsky negli anni successivi. E il tutto esaurito era una consuetudine. 

Ho imparato ad amarlo proprio lì, durante quei concerti fiume di un’intensità fuori dal comune in cui anima, viscere e poesia si fondevano in un unicum raro e prezioso. Concerti ad alto coefficiente emotivo come spesso la sua musica che lui con assoluta maestria affresca coniugando a regola d’arte blues, jazz, skiffle e le sue immancabili radici celtiche. Che dire dello splendido Irish Heartbeat che lo coglie in uno stato di grazia al fianco dei Chieftains? Ed il soul, amato, amatissimo in terra d’Irlanda. 

Certo, alcuni dei suoi capolavori li conoscevo, era impossibile ignorarli. Da Astral Weeks a Moondance, da No Guru, No Method, No Teacher fino a quell’Hymns to the Silence, album e canzone eponima, che licenziò nei mesi precedenti al concerto e che rimane uno dei dischi più ispirati e significativi della sua parabola artistica. Ricca, ricchissima di album al punto che Morrison è tra gli artisti più prolifici in assoluto, bulimici è più corretto affermare dall’alto dei suoi 47 album pubblicati. E al netto delle esperienze artistiche che precedono la carriera solista, i Them in primis, quelli della celeberrima Gloria, tre accordi che hanno scolpito la storia del rock.  

All’epoca pensavo pure che con Dylan, Paul Simon, Lou Reed e Leonard Cohen fosse tra le più alte “autorità morali” nell’ambito della musica anglosassone. Per qualità, rigore, onestà intellettuale, disegno poetico, adesione all’anima umana e ai suoi valori inalienabili. Artisti calati nel proprio tempo, ladri di fuoco per intenderci. Quattro americani di estrazione ebraica e lui, protestante di ceppo scozzese di Belfast, Irlanda del Nord. Ma sgranando questo rosario laico aggiungevo Neil Young e Tom Waits. 

Pur sapendo di un carattere scontroso e scorbutico ho cercato in un paio di occasione di avvicinarmi per raccogliere un’intervista, inutilmente. Lui, dai mondi bruschi e spicci, selvatico, sempre corrucciato in volto lo avvicinai un paio di volte la notte al Bar des musiciens di Montreux, all’epoca sotto la hall del Hotel Hyatt, dove, al termine dei concerti molti artisti si riunivano per rilassarsi, sorseggiare un calice di vino e, bontà loro, jammare fino all’alba. Una notte ci riprovai per la seconda volta a distanza di qualche anno. Lui era seduto in un angolo, sprofondato in una comoda poltrona di velluto color “verde brughiera irlandese”. Una bottiglia di whiskey in una mano, un bicchiere nell’altra. Tutt’intorno musica, afrori e il vociare della gente. Mi avvicinai contando sul relax post concerto e sperando nella sua disponibilità. Salutandolo e complimentandomi per la qualità della performance chiesi un appuntamento per l’indomani. Con ferma gentilezza mi rispose che le sue canzoni parlano per lui. Non aggiunse altro. Abbozzò un sorriso e mi porse un bicchiere. Mi sedetti qualche minuto vicino, e ringraziandolo sorseggiai due dita di whiskey prima di congedarmi. Scornato per l’ennesima volta. Ma aveva ragione, eccome se l’aveva.

La poetica del “Leone di Belfast” è lì a raccontarcelo, fin nelle viscere. Intrisa fino al midollo di spiritualità, è una celebrazione della vita e dell’amore che si manifesta nella ricerca, oltre che di un senso, di una connessione profonda col mondo circostante, mistico, panico e terreno. Ogni canzone nella discografia di Van Morrison racconta una storia unica, sapendo offrire un’esperienza emotiva spesso profonda. Grazie anche a una voce calda, a una espressività degna di una tavolozza generosa di colori per ricchezza e sfumature. Tinte accecanti e pastello, con ombre e luci folgoranti.

E raccontano molto del suo autore, che ama quella tecnica narrativa del “flusso di coscienza” resa celebre da Joyce. Ma Van Morrison non si fa mancare nulla ricorrendo spesso a metafore e simbolismi che evocano nostalgie e meraviglie. Cita Wordsworth, Eliot, Yeats e Joyce nei suoi testi davvero evocativi, nonostante l’impiego di un linguaggio semplice e accessibile.

Me lo fa amar anche l’indole che indossa senza mai occultarla. Un vero contestatore e un formidabile “bastian contrario”, uno che non si è mai piegato alle sirene delle mode o dei “trend” del momento. Che compone, suona e canta non solo per il proprio piacere ma anche, credo, soprattutto per profonde esigenze interiori, per esprimere una propria verità.

Morrison è davvero uno spirito libero, tra gli ultimi credo, ed è pure e una bestia da palcoscenico. Musicista, cantautore, polistrumentista e uomo mistico. Che non ha mai smesso di cercare sé stesso anche attraverso i Testimoni di Geova prima, i santoni di Scientology poi per abbracciare la filosofia laica di Jiddu Krishnamurti, per il quale ogni uomo può scoprire la vera libertà e l’autentica felicità senza l’ausilio di guru, metodi o maestri.

Ma Van Morrison è soprattutto uno straordinario poeta del soul. In pratica un monumento vivente, cavaliere dal 2015 (onorificenza attribuitagli da Elisabetta II), e autore di nicchia pur avendo avuto un forte ascendente sulle generazioni successive: Springsteen e gli U2, Rod Stewart, Patti Smith ed Elvis Costello lo citano tra i loro punti di riferimento. E lui, fresco ottuagenario, è ancora goloso di musica e di vita; un poeta che ancora ama cantare il suo mistico blues.

LEGATO A “WE ARE THE CHAMPIONS” (RETE TRE) DEL 31.08.2025, ORE 09.00

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