Il problema non è mica nuovo, certo. Si può riassumere con una domanda: quale consiglio seguire? Quello di Roger Daltrey o quello di Robbie Williams?
«I hope I die before I get old» o «I hope I’m old before I die»?
Meglio bruciare velocemente la propria esistenza rock, o prolungarla il più possibile? Il problema non è nuovo, appunto. Il fatto è che si ripresenta sempre più spesso, e ormai non coinvolge più solo il rock. Però nel rock appare più evidente, è inevitabile.
La gioventù è il carburante naturale del rock – o meglio, la convinzione tipicamente giovanile di essere al centro del mondo, e che quello che ti accade, accada a te per la prima volta nella storia dell’umanità. A cinquant’anni puoi ancora soffrire per una storia d’amore che finisce, puoi ancora arrabbiarti per le storture e le ingiustizie della società occidentale, ma difficilmente riuscirai a raccontare cose del genere con la forza di chi ne è sinceramente stupito. Dunque, meglio evitare di farlo?
Si parte sempre, in questi casi, dai Rolling Stones, che fino alla morte di Charlie Watts nel 2021 hanno ricevuto dal destino la grazia di poter suonare con la stessa formazione per più di mezzo secolo da star assolute – e sono andati avanti anche dopo la dipartita del batterista. Ma sono molti altri, i casi di musicisti non più giovani che continuano imperterriti la loro attività nonostante la rabbia rock di ventenni sia inevitabilmente svanita. Cosa ancora più incredibile: il pubblico non li abbandona. Vasco Rossi la prossima estate suonerà sette volte di seguito allo stadio di San Siro a Milano, sempre esaurito. Tutto vero. E, beh, possiamo ragionevolmente ipotizzare che l’ultima canzone in scaletta sarà Albachiara.
Ma può, il rock, diventare prevedibile liturgia? È ancora rock, se sul palco ci sono settantenni? La risposta a tutte le domande contenute nelle righe precedenti è no, ma è anche sì.
Quando si parla di rock e invecchiamento, inevitabile – perdonate la banalità – citare Lester Bangs (che del resto, da critico musicale, ha avuto una vita più rock di molte delle star di cui scriveva). Dopo l’uscita di Goats Head Soup nel 1973, Bangs scriveva che i Rolling Stones assomigliavano a «un gruppo di vecchi in procinto di cascare a pezzi». Da notare che Mick Jagger e Keith Richards, ai tempi, avevano rispettivamente 30 e 29 anni. Sette anni dopo, sul newyorchese Village Voice del 23 luglio 1980, ecco lo stesso Bangs che correggeva il tiro: «Dopo aver stroncato praticamente tutto quello che hanno pubblicato negli anni Settanta, ho cambiato idea. Non so se c’entri il fatto che ho compiuto trent’anni eccetera, ma l’altra sera ho detto a un mio amico: “Cazzo, sì, invecchiamo tutti con i Rolling Stones! Ci sono cose peggiori, nella vita!”». Bangs purtroppo non sarebbe invecchiato per vedere i Rolling Stones davanti a centomila persone a Glastonbury nel 2013 – e non che oggi ci siano meno paganti, ai loro concerti – ma possiamo serenamente dire che molti abbiano condiviso il suo ragionamento.
Dunque, si può essere rockstar e essere anziani? Nel ventunesimo secolo, sì. L’atteggiamento del pubblico del pop e del rock nei confronti dell’età è cambiato radicalmente, dal Duemila in poi. Se fino ai Novanta inoltrati era molto diffusa l’idea che per una rockstar fosse più dignitoso andarsene da questo mondo a 27 anni che stare ancora sul palco a 50, oggi quella stessa idea appare a dir poco insostenibile. Perché il rock, pur non essendo morto, sembra aver raggiunto la fine della sua epoca d’oro (e a noi non resta che ringraziare per il lungo, strano, meraviglioso trip che è stato), quindi è difficile che dal rock nascano oggi stelle capaci di avere un impatto paragonabile a quello di Rolling Stones, Pink Floyd, U2, Nirvana.
Soprattutto, perché il pubblico è invecchiato biologicamente ma non socialmente: fino agli anni Ottanta, gli adulti erano adulti, il loro mondo era nettamente separato da quello dei giovani; e prima della seconda metà del Novecento, la maggior parte della gente aveva ben poco “tempo libero”. Oggi invece, per la prima volta nella storia umana, consideriamo perfettamente normali (senza alcuna volontà discriminatoria faccio un esempio al maschile, per pura comodità ed esperienza personale) cinquantenni che indossano felpe col cappuccio e sneakers, che giocano ai videogame, che vogliono vedere concerti rock. In fondo è sempre una questione di domanda e offerta.
Nel 2001 John Strausbaugh del New York Press (che per farla breve era la risposta repubblicana al già citato Village Voice, da sempre voce dell’America liberal) scriveva nel suo Rock Till You Drop che «il rock è musica per giovani, suonata al meglio da giovani, per i giovani, in un ambiente che esclude specificamente i loro genitori e chiunque abbia l’età dei loro genitori». Strausbaugh, oltre a prendere in giro l’incipiente pappagorgia di Eric Clapton, lanciava in modo chiarissimo l’accusa più grave per le vecchie rockstar: non certo quella di essere invecchiate, ma essere diventate strumenti del sistema che avevano promesso di scardinare. Niente di nuovo, per carità: è un classico del pensiero conservatore moderno, il far notare come i rivoluzionari spesso preferiscano invecchiare con un po’ di soldi in banca, invece che portare a termine la rivoluzione. Ma negli anni Venti del ventunesimo secolo, in cui qualsiasi idea di “integrità artistica” è ormai superata dagli eventi, non sembra più una colpa molto grave agli occhi del pubblico. E allora, niente di male a stare sul palco a ottant’anni, e niente di male nel chiedere mille dollari per sentire da vicino Jagger che canta Sympathy for the Devil. Potrebbe essere l’ultima volta, in fondo.
Ma non contateci troppo. Nel 2016 alcuni fan sborsarono cifre pari a un mese di stipendio per vedere, sul palco del californiano Desert Trip festival, Rolling Stones, Neil Young, Roger Waters, Who, Bob Dylan e Paul McCartney. Il motivo? Probabilmente non erano sicuri che avrebbero avuto un’altra occasione. Oggi possiamo dire tranquillamente che quelle paure erano infondate.
Detto che nel 2024 non c’è niente di intrinsecamente negativo, nel fare la rockstar pur avendo una certa età, certo ci sono modi più o meno corretti di farlo. Basta seguire alcune semplici regole.
Primo, è necessario tenersi in allenamento: se i concerti sono l’unico modo di continuare a produrre reddito – i dischi e lo streaming contano ormai abbastanza poco – non bisogna dimenticare che si tratta di un mestiere più faticoso di quanto possa sembrare. E arrivare sul palco spompati non è mai una buona idea.
Secondo, le collaborazioni con i giovani sono consigliate, ma meglio non provare a sperimentare troppo con suoni moderni: di solito, anche gli artisti ventenni trovano più soddisfazione nel reinterpretare i classici.
Terzo, combattere con forza tutti coloro che parlano di “nostalgia”: bisogna sempre sottolineare che la musica è molto più di questo. Vale per le grandi star, ma anche per chi suona davanti a poche centinaia di persone.
Quarto, e forse più importante: quando si sente la fine avvicinarsi, meglio andarsene con un botto. Meglio non seguire i cliché dei vent’anni. Meglio parlare apertamente della morte, e della vita di conseguenza.
Ci sono modi diversi di farlo: Johnny Cash ha costruito un meraviglioso canzoniere di classici americani vecchi e nuovi, celebrazione di una vita dedicata alla musica; Leonard Cohen ha raccontato com’è guardare in faccia la morte; David Bowie l’ha trasformata in un’ultima performance. Tre casi di artisti che suonano molto lontani dai loro giovani sé, tre casi in cui la musica sembra ritrovare, per incanto, l’energia dei vent’anni.