musica rock

Lou Reed

Il poeta del rock che ha camminato nel fuoco

  • 2 marzo, 07:32
  • 4 marzo, 09:43
transformer1972.jpg

Lou Reed, Transformer

Di: Maria Chiara Fornari

Voce storica e fondatore, con il gallese John Cale, della band newyorkese (benedetta da Andy Warhol) The Velvet Underground, Lou Reed è stato un punto di riferimento - a partire dalla fine degli anni ’60 - per il rock, il punk, la new wave e addirittura per il pop (genere che ha talvolta lambito, dichiarando di non disdegnare, senza mai sposare veramente).

Il capostipite del rock alternativo e del cosiddetto “rock decadente” ci lasciava il 27 ottobre del 2013, all’età di 71 anni. Troppo presto per noi fan, che non ci bastavano mai le nuove versioni di “Sweet Jane” in apertura dei suoi concerti. Ci lasciava dopo una esistenza densa, tormentata dalle dipendenze, ma piena di amori e passioni artistiche. Una vita invero sempre in bilico tra dannazione e redenzione.
La morte arriva dopo un trapianto di fegato, nella sua casa, a fianco di Laurie Anderson, moglie adorata e artista ammirata, che ne ha descritto così gli ultimi istanti: «È morto domenica mattina, guardando gli alberi ed eseguendo la famosa Forma 21 del tai chi, con solo le sue mani da musicista che si muovevano nell’aria».

Artista fecondo e instancabile Lou Reed ha dedicato quarantasei anni alla musica, lasciandoci altrettante sue opere, tra album in studio, live e raccolte.

Una discografia ricchissima costellata di produzioni d’avanguardia entrate di diritto nella storia del rock e della musica del ‘900. Ballate lente e tormentate, composizioni forti e magnetiche nate dalla frequentazione, assai prossima, delle strade della sua città, New York, e della sua gente. Con una impronta musicale fin da subito, la sua ideale: due chitarre, basso e batteria, la voce è il quinto indispensabile elemento per le sue canzoni che più che cantate sono recitate, esaltandone la forza poetica.

La figura simbolo della controcultura newyorkese della fine degli anni ‘60, all’anagrafe Lewis Allen Reed, è nato a Brooklin, il 2 Marzo 1942. La sua è una famiglia ebraica, la madre è casalinga, ex reginetta di bellezza, il padre contabile. Con la famiglia si trasferisce presto a Freeport, sull’isola di Long Island, dove cresce. Ha nove anni quando impara a suonare la chitarra, bastano poche note per replicare le canzoni di rhythm & blues che ascolta alla radio. E poi tanto rock’n roll.
Lo spirito ribelle, gli atteggiamenti effeminati e il parlare apertamente di omosessualità sono considerate dai genitori devianze che vanno curate. E, da giovane adolescente, viene affidato ad un centro psichiatrico.

All’epoca, la terapia più praticata dalla psichiatria era l’elettroshock. Per due settimane il giovane Lewis viene sottoposto a intense scariche elettriche che, come lui ha più volte ricordato, gli fanno perdere completamente il senso dell’orientamento e la memoria.
Una esperienza che, inutile dirlo, lo segna per tutta la vita e che nel 1974 ricorda in Kill Your Sons (Ammazzano i tuoi figli) nell’LP “Sally Can’t Dance”:

All your two-bit psychiatrists / are giving you electric shock / they said they’d let you live / at home with mom and dad / instead of mental hospitals. / But every time you tried to read a book /you couldn’t get to page 17 / ’cause you forgot where you were / so you couldn’t even read.

(Tutti i tuoi psichiatri da strapazzo / ti fanno l’elettroshock / hanno detto che ti avrebbero lasciato / vivere a casa con mamma e papà / invece che in ospedali psichiatrici / ma ogni volta che provavi a leggere un libro / non riuscivi ad arrivare a pagina 17 / perché avevi dimenticato dov’eri / così non potevi neanche leggere)

A 16 anni arrivano le prime esperienze con la droga. Nel 1964 si laurea con il massimo dei voti in scrittura creativa e regia alla Syracuse University’s College of Arts and Sciences. Lì incontra uno dei suoi punti di riferimento letterari: lo scrittore e poeta Delmore Schwartz, già malato e alcolizzato (morirà nel 1966) che valorizza il suo talento poetico.
Oltre a Schwartz, di cui il giovane Lou apprezza il linguaggio asciutto e antiretorico, i suoi autori di riferimento letterari sono: Raymond Chandler, la sua scrittura disincantata, piena di luci e ombre, moderna, “visuale” e ironica. E la prosa spontanea di Hubert Selby Jr, (autore dell’Ultima fermata a Brooklin, romanzo simbolo della cultura underground americana, uscito nel 1964) il suo sguardo crudo e asciutto sulle realtà degradate dei bassifondi della metropoli.
“Sweet Jane” e il racconto nero “A Gift” sono i testi che più risentono di questi modelli letterari. Altro punto di riferimento letterario di Lou Reed è Edgar Alan Poe. Omaggiato con il concept album “The Raven”, del 2003. Diciannovesimo album in studio di Lou Reed, interamente dedicato all’ammirato grande narratore del mistero e del macabro.

130355052_highres.jpg

Lou Reed, Zurigo 31 gennaio 1975

  • Keystone

Pare strano, ma lo sguardo di Lou Reed è, per assurdo, più clemente dei suoi riferimenti letterari. Le sue canzoni sono talvolta vellutate, altre aspre, abrasive. Il suo è un rock che sorge dal basso, dalle mille miserie umane dei diseredati, degli ultimi, quelli che il perbenismo confina nei bassifondi. Lui vive nel lato oscuro, selvaggio, della metropoli senza giudicarlo, mai. (“Walk on the Wild Side” - Trasformer, 1972)
Sono canzoni che narrano memorie del sottosuolo (dostoevskijano) newyorkese, dove le anime affondano, come conseguenza di una profonda, emarginante, critica sociale.
Lou Reed (il trasfomer) prende quelle storie e le trasforma le rigenera, nei suoi testi e nelle sue canzoni. Narra un mondo crudo, sì, ma che è innanzitutto orgogliosa negazione delle false convenzioni sociali dell’America perbenista. Una negazione che si fa talvolta anche vero impegno politico, contrapponendosi ad ogni superficialità, fin dagli anni confusi del boom economico, solo apparentemente luminosi e vincenti. Un mondo su cui getta una luce abbacinante che comprime e distorce come il suono in White Light White Heat (secondo album in studio dei Velvet, era il 1968 e Andy Warhol era già uscito dai giochi). Storie maledette, caricature raccontate senza pietà a volte sarcastiche, altre volte cariche di pietà. Un rock nero, perché “dove c’è molta luce, l’ombra è più nera”.

Dopo tutto, la gente da sempre mi racconta i propri segreti, e spesso li metto nelle canzoni come se fossero cose accadute a me

(Lou Reed, Ho camminato nel fuoco, Mondadori, 2000)

Il grande viaggio nella musica di Lou Reed inizia nel Greenwich Village dove a metà degli anni sessanta suona con la sua band The Velvet Underground (con John Cale, Sterling Morrison e Angus MacLise, poi sostituito da Maureen Tucker). Andy Warhol, con il suo seguito di artisti della Factory, li scopre in uno dei locali del Village. Nasce subito il disco che è oggi una pietra miliare, un simbolo della creatività artsitica newyorkese nata attorno alla Factory di Warhol. Con la cantante e modella Nico, nel 1967 esce “The velevet Underground & Nico” il disco sulla cui copertina campeggia la gialla banana pop firmata Andy Warhol.
Nel 1967 lo storico reporter per i diritti gay, Richard Goldstein, battezzò la band con una definizione che è passata alla storia: frutto del matrimonio segreto tra Bob Dylan e il marchese de Sade.

Velvet_Underground_&_Nico_publicity_photo_(retouched)1966.jpg

The Velvet Underground & Nico

Il fenomeno Lou Reed era esploso. Ma la sua carirera, sia con la band dei The Velvet Undergroud che da solista, fu una esperienza artistica non sempre in ascesa, con alti e bassi: successi esaltanti seguiti da insuccessi clamorosi.

Dopo quattro dischi con i The Velvet Underground inizia la sua esperienza da solista. Nel 1972 esce “Lou Reed” poi “Transformer” e nel 1973 “Berlin”, il concept album che ha appena compiuto 50 anni ed è unanimamente considerato come uno dei migliori degli anni ’70.
Il disco arriva dopo il grande successo di “Transformer“, LP prodotto da un suo ammiratore tale David Bowie. E come altri dischi, forse troppo avanti sui tempi, non ha immediato successo, anzi. La rivista Rolling Stones lo definisce “un disastro” un’opera cinica e malata e lo boccia come “peggior album del 1973”.

Non ho mai avuto giovani che strillavano ai miei concerti. I ragazzi strillano per David [Bowie, ndr], non per me. A me, tirano siringhe sul palco 

Lou Reed (Rolling Stones)

Con “Berlin” Lou Reed fa subito capire di essere un artista che non segue le regole del mercato e se il pubblico si incanta per il coretto delle “ragazze di colore” di Walk on The Wild Side e l’assolo di sax, lui risponde con la sua voce leggera insicura, flebile che canta “Sad Song” in “Berlin”. Raccontando la disillusione, la fragilità delle apparenze, delle relazioni e della vita stessa: “I’m gonna stop wastin’ my time. Somebody else would have broken both her arms… “(Dovrò smetterla di perdere il mio tempo. Qualcun altro le avrebbe rotto tutt’e due le braccia… ).
E dire che la sua riflessione sulla città del muro più vergognoso d’Europa (che cadrà 16 anni dopo) arriva sei anni prima di “The Wall” dei Pink Floyd, che ebbe un immediato ed enorme successo.

Insomma una storia artistica prolifica e ricca, ma non sempre con il vento in poppa, diciamo così. Non sempre capita e accolta nel migliore dei modi. È questo il motivo per cui Lou Reed aveva sviluppato una vera e propria avversione per i critici e i giornalisti e intervistarlo era considerato un atto di vero coraggio.

Eppure uno dei versi preferiti delle sue canzoni era «C’è una porta e non un muro».
Lo dichiara, nel libro di testi “Ho camminato nel fuoco” uscito in italiano da Mondadori nel 2000. Il verso è tratto dal disco Magic and Loss del 1992 e racconta più di qualsiasi altro il suo approccio esistenziale, sempre in contrapposizione ai muri che ha visto crescere attorno a sé, quelli reali (“Berlin”) e quelli meno visibili, psicologici, che turbano anche di più, perché sommessamente incombono con più forza sulle nostre esistenze.
Vien da dire che una porta c’è sempre e c’era, anche quando i suoi genitori hanno visto un muro.

Lou Reed

Alphaville 20.10.2023, 12:35

  • minimumfax.com

Ti potrebbe interessare