Musica rock

Pink Floyd: i 50 anni di Wish You Were Here

Il disco omaggia il genio folle dell’ex membro Syd Barrett e denuncia le storture dell’industria musicale, ma è anche l’inizio dei dissidi all’interno della band

  • Oggi, 15:05
Pink Floyd
  • Imago/Zuma Press Wire
Di: Riccardo Bertoncelli 

Il tempo è galantuomo o forse, al contrario, imbroglione. Smussa gli spigoli, sbiadisce i ricordi, svelenisce gli umori; e fa sembrare età dell’oro certe stagioni che in realtà furono tormentate e tenebrose. Wish You Were Here dei Pink Floyd, per esempio, di cui ricorre in questi giorni il cinquantesimo, viene ricordato come un album glorioso, con il leggendario quartetto che aveva scalato il cielo e le classifiche con The Dark Side of the Moon e si avviava al trionfo di The Wall, accompagnato dalla stima e dall’affetto di milioni di fan.

In realtà non era tutto rose e fiori. Il bacio della fortuna era avvelenato e nel volgere di poco, fra il 1974 e il ‘75, affiorarono dissidi, risentimenti, incomprensioni tra i quattro Floyd, che smisero di fare squadra come negli anni dell’underground e della fatica. Wish You Were Here nasce in queste circostanze non proprio felici, e chi ha orecchie fini lo coglie; la musica comincia a non essere più “il suono della beatitudine” ma una contorta sinfonia di angeliche fantasie e molto umane paranoie, in un chiaroscuro che trova per l’ultima volta equilibrio.

L’album comincia a delinearsi un anno dopo l’uscita di Dark Side, marzo 1973. I Floyd hanno una serie di idee che provano in concerto, rifinendo soprattutto un brano, Shine on You Crazy Diamond. Alla fine del test Roger Waters, che non senza contrasti ha assunto la leadership del gruppo, decide che l’album avrà un tema, quello della “assenza”, e proprio quella suite in nove parti sarà il filo conduttore. Gilmour vota contro ma è in minoranza, e deve adeguarsi; tra il primo blocco e il secondo di quel Diamante tre canzoni più convenzionali come Welcome to the Machine, Have a Cigar e Wish You Were Here.

A gennaio 1975 la band entra allo studio 3 di Abbey Road per le sedute ufficiali, che si protraggono con pause per concerti fino all’estate. La lavorazione è lunga, la nuova tecnologia è un’istigazione a indugiare per i quattro perfezionisti e le loro insicurezze; Mason confesserà di aver sfiorato la crisi di nervi per quell’estenuante fare e rifare su più piste, Waters si troverà a mal partito con decine di take per aggiustare il canto sempre imperfetto. In Have a Cigar, violento sfogo contro l’industria discografica, si ricorre a un escamotage; a cantare al posto del disorientato leader viene chiamato l’amico Roy Harper, che sta registrando in una sala vicina.

L’ottimo Roy non è l’unico ospite dell’album, che si avvale anche del sax di Dick Perry, glorioso reduce del Dark Side precedente, di un coro femminile e del violino di un grande del jazz, Stephane Grappelli, intercettato mentre registrava in un’altra sala di Abbey Road e invitato a contribuire a Wish You Were Here. Ma più importante di loro è un convitato di pietra, Syd Barrett, l’amico degli anni eroici evocato con toni struggenti nei due pezzi chiave, Shine On You Crazy Diamond e Wish You Were Here; il Diamante Pazzo è lui, erano stati i luminosi riflessi della sua mente a indicare la strada ai giovani Floyd, prima che la droga si prendesse il suo senno. Il telepatico Syd sente la chiamata e un giorno di fine registrazioni si presenta in studio all’insaputa di tutti. È grasso, calvo, nessuno lo riconosce. Se ne va senza un saluto. È il sigillo perfetto a una storia scabrosa, che rende bene il chiaroscuro di quei Pink Floyd 1975: un nodo aggrovigliato di bellezza, perdizione, follia, sogno, nevrosi.

L’album esce e fa il botto, anche se non può competere con l’irraggiungibile Dark Side. C’è meno varietà rispetto a quella Luna ma una maggiore coesione forse, e le tastiere a cascata di Wright, la chitarra trasparente di Gilmour, gli arabeschi percussivi di Mason e l’aspra dolcezza che ha in gola Waters definiscono il più classico “Pink Floyd sound”. Facile scrivere queste cose cinquant’anni dopo, quando di un disco che ha venduto dodici milioni di copie conosciamo ogni minimo dettaglio, perfino i due secondi orchestrali che escono dall’autoradio di Gilmour all’inizio della title track (è il finale della Quarta Sinfonia di Tchaikovskij). Facile oggi, ma leggete come la pensa il Melody Maker a vinile caldo, 13 settembre 1975. «Come sonnambuli i Floyd attraversano i loro viali stellari a braccetto con un pallido fantasma di creatività. Wish You Were Here fa schifo. Punto».

18:05

Pink Floyd: 50 anni di Wish You Were Here (Millevoci, 11.09.2025)

RSI Cultura 11.09.2025, 12:00

  • Imago Images
  • Axel Belloni, Alice Pedrazzini
32:43

Wish you were (still) here

Voi che sapete... 11.09.2025, 16:00

  • Keystone
  • Martino Donth e Giovanni Conti

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