Musica rock

Spirito e materia nel nuovo These New Puritans

Il frontman Jack Barnett ci guida nelle atmosfere del disco, che ampliano l’orizzonte stilistico della band inglese

  • Ieri, 11:04
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  • Imago/Votos-Roland Owsnitzki
Di: Claudio Biazzetti/Red. 

Sempre in movimento. Gli inglesi These New Puritans sono abituati così: continuano a esplorare la musica cambiando le coordinate del loro suono. Nel corso di quasi due decenni di carriera hanno maneggiato post-punk, hip hop, ambient e tutto ciò che potesse appagare il loro desiderio di sperimentare. Crooked Wing è il nuovo disco, e ancora una volta conferma questa spinta rinnovatrice di cui si nutre la band. Orchestrazioni cameristiche, l’ausilio di strumenti come campane, organo a canne, ottoni e un senso di spiritualità che innerva i battiti meccanici sono il frutto di un lungo lavoro. Il gruppo ci aveva abituato a tempi lunghi per la pubblicazione dei dischi, questa volta ci ha messo addirittura sei anni. La ragione è chiara: Crooked Wing è un disco ricco, pieno di dettagli. Non è il classico disco che si registra in due anni. Da questo spunto parte la nostra chiacchierata con il leader Jack Barnett.

«Più sento le parole “sei anni” e più mi sento in colpa. Non c’è nessuna scusa per averci messo così tanto, ma è il tempo che ci è voluto».

È vero che è nato tutto da una gita in una chiesa ortodossa greca?

«Penso che ogni volta che si faccia qualcosa ti racconti un po’ una storia dopo che l’hai fatta. Perché di fatto il processo di creazione è un atto caotico. Però sì, uno dei vari inizi delle diverse parti è stato in questa piccola chiesa ortodossa greca, che ho trovato per caso. Con me avevo un microfono, che mi porto sempre nel caso ci sia un momento che mi attiri particolarmente. Così ho registrato la campana appena al di fuori della chiesetta, ma al momento non ci ho pensato un granché. È stato solo qualche settimana dopo che, riascoltando, mi sono reso conto che quel suono mi aveva colpito in pieno». 

Sei religioso o sei solo attratto da questi monumenti antichi?

«Non sono religioso, ma penso che mi piacerebbe esserlo. Adoro i posti antichi: nel suono di una campana c’è normalmente di suo una grande ricchezza, una sensazione familiare se sei europeo o comunque vieni da un posto dove vengono usate molto. In quelle ortodosse c’era qualcosa di alieno: avevano una complessità armonica che era al contempo familiare ma inusuale».

Familiare, anche perché nell’ultima canzone suonate lo stesso organo della chiesa dove suonava vostro nonno…

«Lo suoniamo in un paio di tracce. Mio nonno era un organista in una chiesa di campagna. Non lo conoscevo così bene, ma grazie ai contatti di famiglia ci hanno lasciato utilizzare gratuitamente l’organo. Anche se poi abbiamo voluto pagare comunque la chiesa. È stata una decisione pragmatica. Lui poi è stato organista lì per non so quanti anni, tipo 30 o 40, in questa piccola chiesetta nel bel mezzo del nulla».

Pensi che la vostra città natale (Southend-on-Sea) si rifletta in questa atmosfera a volte dark, a volte familiare?

«Ho sempre pensato di voler fuggire da quel posto, o perlomeno non essere determinato dalle mie origini o da niente in generale. Inventarsi da soli è sempre stato un concetto molto attraente per noi, ma col passare del tempo ti rendi conto che ovviamente sei definito dal luogo da cui provieni. Nel nostro caso, un posto del sud che si chiama Essex. L’Inghilterra orientale in generale è un posto interessante, che per me ha una bellezza singolare. È quanto di più lontano dalla visione classica dell’Inghilterra, quindi campi coltivati, villaggetti… Semmai è uno scenario di paludi, pianure, fabbriche e città decadenti affacciate sul mare. Ha una sua bellezza».

Il vostro nome si ispira a una canzone dei Fall. È come se aveste sempre giocato fra il sacro e il profano, tra la virtù e il peccato. Concordi?

«È qualcosa che hanno detto spesso di noi. Dal mio punto di vista credo sia una questione di trovare la bellezza in posti inusuali, inaspettati. Immagina di trovare un dipinto bellissimo, un ritratto di un volto enigmatico, incastrato però tra la spazzatura di un canale. Non sarebbe molto più potente che vederlo appeso in una galleria d’arte tutta immacolata? Mi sono sempre piaciuti questi contrasti».

L’unica cantante ospite accreditata è Caroline Polachek. Il che ha anche senso, essendo la sua voce angelica. Non manca però una dose di humour, nell’album. La canzone con lei parla di due gru che si innamorano in un cantiere…

«Quella canzone è nata una volta che ero sul treno, con la mia ragazza dell’epoca. A un certo punto ha visto due gru, una davanti all’altra, in un cantiere, e ha esclamato qualcosa tipo: “Si sono innamorate!” È una persona piena di immaginazione, e ho pensato subito di scriverci una canzone. Ma solo molti anni dopo è nato il duetto, così come l’immagine del sole che tramonta e le ombre che si uniscono in un atto romantico. All’epoca però non sembrava così assurdo scrivere un pezzo sulle macchine che si innamorano. Era molto prima che la faccenda dell’intelligenza artificiale venisse fuori e che il mondo per gli umani si rivelasse più minaccioso che in passato. Col senno di poi è un pezzo molto più rilevante ora che allora».

Oltre alla musica avete lavorato in ambienti come moda e arte contemporanea. Mondi mollto frenetici e caotici, che a volte possono assorbirti e prosciugarti l’anima. Voi invece avete sempre tenuto i vostri spazi, i vostri tempi. Come avete evitato la piaga trovando la vostra dimensione?

«Ce ne siamo sempre stati per i fatti nostri, al di fuori di tutto. Non siamo neanche mai stati inseriti in una scena. Abbiamo resistito, assecondando la nostra natura di farci i fatti nostri. Credo che in parte sia perché io e George facciamo musica insieme da quando siamo bambini. Ci siamo creati sin da subito il nostro mondo: disegnavamo con le matite gli album della nostra band che neanche esisteva ancora! Io suonavo la chitarra e George i bonghi che avevamo comprato in un negozio dell’usato. Abbiamo semplicemente continuato con quella mentalità di creare il nostro mondo. Sono molto più a mio agio così, anziché preoccuparmi di cosa fanno gli altri o se sono rilevante o se è questo ciò che dovrei fare. Non ho mai avuto una relazione pragmatica con la musica. Preferisco sognare».

Una specie di linea invisibile divide i vostri album Hidden (2010) e Fields of Reeds (2013). Il primo è più orientato al rock e all’hip hop, mentre dal secondo in poi le atmosfere sono molto più rarefatte, introspettive, ambient. Come mai questo cambiamento nei paesaggi?

«È difficile da dire. Se devo essere onesto, non mi piace molto il nostro primo album. Quando l’abbiamo finito non ero per nulla soddisfatto. Quindi mi sono detto che da quel momento in poi non avrei fatto più nulla se non fossi completamente convinto, così da non dover più percepire anche il minimo sentimento di vergogna o stupidità in un brano. In un certo senso è come assolverci dal nostro peccato originale. Perché non puoi mai contare sulle reazioni altrui. Quindi è meglio non sentirsi in colpa, essere convinti di non aver tradito sé stessi e divertirsi nel processo di creazione».

L’anno prossimo saranno vent’anni del progetto. Avete pianificato qualcosa di speciale?

«Davvero? Non ci avevo pensato. Magari ci penseremo nel 2028, che è l’anniversario del primo album. Ma non ci penso troppo».

27:23

Intervista a Jack Barnett dei These New Puritans (Montmartre, Rete Due)

RSI Cultura 11.06.2025, 16:30

  • Imago/Votos-Roland Owsnitzki
  • Claudio Biazzetti

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