“Superunknown” esce circa un mese prima che il leader dei Nirvana, Kurt Cobain, ponga fine alle sue tribolazioni terrene. Quello sparo lacererà l’ambiente musicale di Seattle, città da cui provengono sia Nirvana che Soundgarden, fin lì capitale rock degli anni Novanta. Il disco arriva all’apice di questa stagione.
Prima di “Superunknown”, i Soundgarden attraversano un percorso di crescita costante, che li porta a incarnare il rampante grunge rock al pari di Nirvana, Pearl Jam e Alice in Chains, seppur in posizione leggermente defilata. Da notare come i Soundgarden siano nati prima di tutti questi gruppi. Perché allora ci hanno messo più degli altri a sfondare? Per dare una spiegazione possiamo riferirci all’anno di grazia 1991, quando i Nirvana cambiano le regole del gioco con “Nevermind” e i Pearl Jam ci mettono il loro carico con “Ten”. I Soundgarden pubblicano “Badmotorfinger”, deliziosa macina heavy priva però del singolone, del pezzo che tutte le radio e le tivù musicali passeranno entusiaste anche al di fuori dei programmi per iniziati. Aggiungiamo il fatto che, in sede di scrittura, i ragazzi si dilettano con tempi non esattamente facilini, e ne comprendiamo l’idiosincrasia con il mondo commerciale. Sono apprezzati, sì, ma soprattutto dai fan dei generi di riferimento.
La band pian piano affina il suo stile mantenendone integre le caratteristiche, che combinano pressa metal e turbina hardcore, gusto per l’innodia e brume post-punk. Assimilati alcuni cambi di formazione, per “Superunknown” il quartetto si presenta così: Chris Cornell, voce e chitarra, corde vocali che si tendono verso le vette di un Robert Plant e cascano negli sprofondi di un Ozzy Osbourne. A inizio carriera sedeva dietro la batteria, benedetta fu l’intuizione di portarlo in proscenio per liberarne l’ugola. Oltretutto è decisamente di bell’aspetto, il che non guasta, anzi. L’altra chitarra è tra le braccia di Kim Thayil, originario dello stato indiano di Kerala, barbuto complice nelle tessiture sonore. La sezione ritmica è affidata a Matt Cameron, batterista rock sensibile al jazz, capace di esaltare la dimensione più propriamente hard dei Soundgarden così come le atmosfere più tribali, e Ben Shepherd, bassista con il piombo nelle dita.
Cupa potenza. Superunknown non suona come un disco che cerca il successo commerciale ma è piuttosto il contrario: è l’acclamazione di critica e pubblico a trovare questo disco. Accade in virtù di pezzi accessibili ma non scontati, una scaletta che alterna momenti di impatto ad altri più introspettivi e altri ancora propriamente psichedelici. Parliamo di quindici-dicansi-quindici pezzi, per una durata complessiva di settanta minuti! Alla luce di ciò che è diventata la musica, in quest’epoca di singoli fluttuanti in rete, si resta abbastanza sbalorditi. Oltretutto, se vogliamo soffermarci sul discorso del minutaggio, la maggior parte delle canzoni supera tranquillamente i quattro minuti di durata. La più pop di tutte, “Black Hole Sun”, sulla quale torneremo tra poco, addirittura si spinge oltre i cinque. Per dire.
L’ascolto smaliziato avverte in “Superunknown” il peso preponderante dei Led Zeppelin. Nessuna accusa di plagio: la musica del Dirigibile è l’impianto su cui si fonda l’intero lavoro, in cui rimane viva la cifra terrigna, fradicia di pioggia del Nordovest USA, di Cornell e soci. A proposito di Cornell, è in questo disco che si carica in spalla la band dandosi completamente alle nostre orecchie. Dinamica favorita dal missaggio che ne mette la voce davanti agli strumenti. Un investimento artistico ma anche emotivo, in cui il cantante condivide con chi ascolta le sue irrequietezze in modo sincero.
Dicevamo di “Black Hole Sun”. Sì, in Superunknown il singolone evocato all’inizio c’è. E dai e dai, anche i Soundgarden hanno trovato la loro “Smells Like Teen Spirit”, la canzone che traduce in musica l’aria dei tempi e scala le classifiche. Entrando nel cuore di una generazione. “Black Hole Sun” contempla malinconica per poi esplodere le sue invocazioni nel potente ritornello. Qui le - diciamo - stranezze compositive filano lisce anche per le orecchie meno allenate. Il pezzo è scritto prevalentemente in 4/4, tempo accessibile ai più, ma nel bridge strumentale butta lì un 9/8. Senza metterla giù dura, si capisce che il gruppo non ha rinnegato ciò che è stato fino al disco prima. In certi ambienti, anche la coerenza è un valore.
Nove milioni di copie vendute in tutto il mondo, “Superunknown” ha fruttato ai Soundgarden una cospicua serie di riconoscimenti, fra cui sei dischi di platino. Potrebbe essere il loro disco definitivo ma c’è anche un dopo.
A distanza di due anni, la band torna con “Down on the Upside”, che lì per lì lascia un po’ freddini. Di nuovo, manca il pezzo con cui (ri)fare il botto. Di “Black Hole Sun” è già prodigioso saperne comporre una. Oltretutto le mode musicali sono cambiate. Ascoltato oggi, però, si tratta di un album di pregevole fattura, diretto e di classe come lo sono sempre stati i Soundgarden.
Seguiranno lo scioglimento del gruppo, la rifondazione con un nuovo album datato 2010 e, purtroppo, il tragico epilogo con la morte di Cornell sette anni dopo.
Figlio di un periodo in cui le chitarre ruggivano e musicisti lungocriniti rileggevano con profitto i Settanta, “Superunknown” resiste alla prova del tempo affermandosi come album che metti su quando l’inerzia chiede una sferzata di elettricità. Un disco di reazione, non certo reazionario.
Cosmo’s midnight, KC & The Sunshine band, Todd Terry & Bridget Barkan, The love unlimited orchestra...
The Funk Shop 08.03.2024, 19:00
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